Una democrazia incompiuta è quella italiana, forse ancora poco matura se l’attore politico è incapace di discernere tra ciò che è giusto, opportuno o conveniente.
Il Governo Draghi, ultimo di una saga di governi a direzione tecnica succedutisi oltre ogni immaginazione e previsione degli elettori, termina il suo mandato con una modalità insolita, si potrebbe dire: caduto per inconsapevolezza.
Inconsapevolezza (presunta?) di Draghi, rispetto alle incombenze del periodo che dovevano trovare, dal suo punto di vista, un largo sostegno con una fiducia al Senato molto più consistente numericamente e con assenso incondizionato dei partiti di Governo; inconsapevolezza (irresponsabile) dei gruppi parlamentari di Lega, M5S e FI che hanno assunto posizioni ferme, strumentalizzate un istante dopo averle manifestate, mancando di cogliere l’importanza di alcuni obiettivi politici e adempimenti burocratici/amministrativi/contabili che un governo deve assolvere, con l’assenso del Parlamento, a pochi mesi dalla fine dell’anno.
Il Capo dello Stato fin troppo previdente ha firmato il decreto di scioglimento delle Camere e al tempo stesso incaricato Draghi di restare in carica con l’esecutivo per gli affari correnti, la Costituzione come noto non prevede alcuna vacatio istituzionale. Draghi, prima di lasciare palazzo Chigi per il fine settimana, ha firmato le direttive ai componenti del Governo sul disbrigo degli affari correnti. Al tempo stesso il Parlamento sarà impegnato fino al 10 agosto, anche se sciolto, deve sbrigare gli affari correnti che comprendono praticamente tutto, tranne il voto di fiducia e i nuovi disegni di legge (quindi stop a cannabis, ius scholae, ddl Zan, ecc.).
La fine del governo Draghi ha ovviamente trovato risalto anche sulla stampa internazionale (fonte “il manifesto”):
Le Monde riporta il saluto di Macron: «un grande uomo di Stato italiano, partner affidabile e amico della Francia». L’ucraino Zelensky ha ringraziato su Twitter: «Sono sinceramente grato a Mario Draghi per il sostegno incrollabile all’Ucraina nella lotta contro l’aggressione russa e nella difesa dei valori europei comuni: democrazia e libertà».
Il New York Times: «è andato in pezzi il governo di unità nazionale del primo ministro Mario Draghi che aveva ridato all’Italia credibilità e influenza». Il Washington: «quanto accaduto destabilizza la terza economia europea». L’Economist: «[le elezioni anticipate in Italia] difficilmente potrebbero arrivare in un momento meno opportuno, tra almeno tre crisi interconnesse: l’invasione dell’Ucraina, l’energia e l’inflazione». La Frankfurter Allgemeine Zeitung: «Draghi perde altri partner di coalizione […] La maggioranza del Senato boicotta il voto di fiducia». Le Figaro: «la destra e il M5S fanno cadere Mario Draghi».
A sinistra, è interessante il commento di Maurizio Landini, il quale ha tenuto con il Governo un dialogo aperto e costante anche nei momenti più aspri: «Oggi è il momento di dare risposte ai problemi delle persone e non di fare cadere il Governo. È il momento che il Governo e il Parlamento decidano di fare delle cose molto precise per i problemi che ci sono» (Catania, presentazione del ‘progetto per la Sicilia’ della Cgil regionale). Mentre Vendola asserisce: «Il Governo Draghi ha rappresentato il compiersi di un paradosso apparente: l’alleanza tra i populisti e i loro avversari più mitizzati, tra sedicenti rivoluzionari e quel Palazzo che dicevano di abbattere e che invece li hanno ingoiati […] Era il Governo della celebrata “transizione ecologica” e ha rimesso al centro delle proprie scelte i combustibili fossili».
Il Governo Draghi non era il mio (in quanto elettore), ma non lo era nemmeno il Governo Conte I e II. Purtroppo o per fortuna, la formazione di un governo in Italia, secondo i dettami costituzionali, dipende dalla capacità di mediazione tra le forze politiche parlamentari uscite vincitrici, o quasi, dalle elezioni, ma non è una scelta facoltativa è appunto un obbligo costituzionale che si accompagna alla necessità di anteporre gli interessi generali a quelli particolari.
Il Legislatore ha previsto una norma vincolante e imprescindibile, per evitare un ritorno alla dittatura e impegnare il Parlamento all’assunzione di responsabilità davanti al Paese. Durante la cosiddetta ‘prima Repubblica’ i governi si alternavano con frequenza, ma il posizionamento della Democrazia Cristiana consentiva una sorta di geometria variabile che conciliava le pretese delle correnti interne al partito con l’assetto istituzionale, si confermava pertanto mediatore necessario e di successo.
Ad un certo punto della storia politica repubblicana la DC, incontrastata al potere per decenni, comprese che il tempo del monopartitismo era terminato e che bisognava condividere il peso delle decisioni politiche con gli altri partiti, meno il PCI (esclusa l’intesa Berlinguer-Moro con la fiducia al Governo Andreotti). Una prassi che ha consentito alla DC di superare tutte le fasi più drammatiche per il Paese, di assistere anche alla fine politica di alcuni alleati/avversari, prima di essere anch’essa liquidata dalla risoluzione giudiziaria dipietrista.
Questa parentesi storica offre una lente utile alla lettura della vicenda Draghi e di come è mutato anche il modus operandi dei partiti politici, impegnati in campagne elettorali permanenti, i cui programmi sono un non senso, in quanto ispirati (con qualche eccezione) dai sondaggi propinati ad una popolazione stanca e delusa che reagisce con l’istinto più becero a qualsiasi sollecitazione.
Draghi interviene formalmente sulla scena politica italiana dopo avere ricevuto tutti gli assensi necessari, politici/istituzionali/finanziari, in Italia, in Europa e negli Stati Uniti, prima di lui solo Romano Prodi e De Gasperi hanno ottenuto un consenso unanime, con la differenza che questi ultimi sapevano di dover rendere conto ai propri partiti ed elettori. Draghi ottiene un ampio gradimento dei partiti su un patto di governo e pretende che questi siano tutti rappresentati nell’esecutivo. In suo onore vengono declamate lodi per il ‘Governo dei migliori’, conferisce buon tono all’immagine dell’Italia, insomma il Draghi-pensiero sembra essere la soluzione a tutti i problemi, tuttavia l’avventura profetica dell’uomo competente e determinato si esaurisce in breve tempo.
La sinistra alternativa al Governo, così come il sindacalismo di base e alcuni media indipendenti, considerano Draghi come il garante di noti finanzieri, l’argine a sinistra per rallentare o negare interventi sociali che ledono gli interessi degli industriali, come colui che pone rimedio alla fragilità istituzionale (vedi Monti), rimandando la chiamata alle urne, ma sorprende alleati e avversari quando decide di passare alle contro mosse senza attendere gli eventi. A questo punto Conte, impegnato a far comprendere le proprie ragioni agli elettori, diventa l’artefice della disfatta, insieme alla destra e cade (da non politico) nel tranello dell’auto-punizione tanto caro ai media al servizio dei propri investitori, gli stessi che sostengono Draghi.
L’intesa idilliaca tra Pd e M5S, stando alle ultime di Letta, sembrerebbe rompersi definitivamente, nel momento in cui quest’ultimo invece di cercare un nuovo orizzonte da scrutare, si guarda ancora dietro le spalle e dice di volere continuare sull’onda del ‘draghismo’. Un segretario di partito, fosse anche della sezione di Roccasecca al comizio di Totò, non direbbe “mai con tizio o caio”, ma cercherebbe nei limiti del possibile di costruire alleanze vincenti e potenzialmente in grado di governare.
Lo scacchiere si deforma anche in Molise, dove se dovesse venire meno l’alleanza con il M5S, la coalizione a guida Pd sarebbe più debole e disposta ad accettare gli infiltrati di chi, facendo affari nella sanità e negli altri settori di competenza regionale, ti sostiene solo dopo aver ottenuto condizioni favorevoli ai propri interessi.