COME FUNZIONANO LE PENSIONI

di REDAZIONE

Le pensioni IVS (invalidità, vecchiaia, superstiti) rivestono un enorme valore sociale, perché forniscono il reddito quando cessa il periodo lavorativo, ed economico, per l’entità delle somme in gioco: nel 2021 (ultimi dati definitivi) gli impegni di spesa sono stati pari a 277 miliardi ed i contributi accertati a 266 miliardi.

Generalmente si crede che i sistemi pensionistici siano molto complessi, tanto da potere essere compresi solo dagli specialisti. Se però si lasciano perdere i dettagli e le superfetazioni e ci si concentra sulle strutture portanti dei sistemi pensionistici, si scopre che esse sono piuttosto semplici e che chiunque può comprenderle. Questo articolo tratta appunto tali strutture portanti, illustrando i due sistemi di computo, retributivo e contributivo, ed i due sistemi di gestione dei contributi, a capitalizzazione od a ripartizione. In Italia il sistema retributivo è stato adottato nel 1952, sostituito gradualmente dal contributivo a partire dalla riforma Dini del 1995.

Il sistema di computo retributivo

Il retributivo funziona su due parametri, chiamati “base pensionabile” ed “aliquota di rendimento”. La base pensionabile è il reddito medio annuo percepito nel periodo lavorativo finale, rivalutato in base alle variazioni annuali dell’indice Istat del costo della vita per le famiglie di operai e impiegati (FOI). Il periodo finale preso in considerazione non era uguale per tutti: un anno per i dipendenti pubblici, 5 anni per quelli privati e 10 per gli autonomi. Per i dipendenti della Banca d’Italia si conteggiava addirittura solo l’ultimo mese di lavoro. Questo sistema crea uno scollamento tra i contributi versati, rapportati alle retribuzioni percepite lungo l’intero arco lavorativo, e la base pensionabile, riferita al periodo lavorativo finale, generando tendenzialmente un deficit contributivo, in quanto – nella media generale – a fine carriera le retribuzioni sono più elevate di quelle ad inizio.

L’importo della pensione iniziale si calcola moltiplicando la base pensionabile per l’aliquota di rendimento, dipendente dagli anni di contribuzione. Nel caso degli autonomi e dei dipendenti privati, si conteggiavano due punti percentuali di “rendimento” per ogni anno di contribuzione, con il limite di 40 anni, raggiunto o superato il quale si andava in pensione con l’80% della base pensionabile. I dipendenti pubblici avevano un trattamento ancora migliore, perché gli venivano attribuiti due punti e mezzo per ogni anno di contribuzione, con l’arrotondamento del periodo contributivo all’anno, per eccesso o per difetto (6 mesi ed un giorno valevano un anno intero, fino a sei mesi niente). Così con 39 anni, sei mesi ed un giorno di lavoro il dipendente pubblico andava in pensione con il 100% della base pensionabile. Si noti che la liquidazione della pensione con il sistema retributivo è indipendente dall’età di pensionamento e dal sesso, cioè dalla speranza di vita residua del pensionando, dunque dalla durata di erogazione della pensione.

I lavoratori autonomi versavano contributi pari al 15% del reddito, ma gli veniva computato il 20%; solo con la legge Dini per costoro si è avviato un lento avvicinamento dell’aliquota di contribuzione a quella di computo, avvicinamento concluso nel 2008. Un sistema così congegnato comportava di fatto che la spesa pensionistica venisse alimentata per un 20-25% dalla fiscalità generale. La pensione retributiva non solo è atecnica, perché indipendente dalla speranza di vita del beneficiario al momento del pensionamento, ma è anche iniqua, in quanto premia chi ha avuto un incremento del reddito a fine carriera lavorativa e penalizza chi invece ha subito un decremento, benché questi possa avere pagato più contributi del primo.

L’adeguamento delle pensioni in corso di erogazione era agganciato alla “scala mobile” delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria (legge 153/1969).

Il sistema di computo contributivo

Il sistema contributivo calcola la pensione annua lorda iniziale moltiplicando il “montante contributivo”, cioè la somma dei contributi versati rivalutati, per un “coefficiente di trasformazione”, che dipende dall’età di pensionamento e dunque dalla stima della speranza di vita residua dell’assicurato. La rivalutazione dei contributi versati segue meccanismi diversi, a seconda che la loro gestione dei contributi sia a capitalizzazione od a ripartizione, e se ne parla più avanti. I coefficienti di trasformazione forniscono in pratica la stima del numero degli anni e dei mesi di pagamento della pensione all’insieme dei pensionandi della stessa età. Più è alta l’età di pensionamento, minore è la speranza di vita, maggiore è il coefficiente di trasformazione e viceversa. Il concetto è spalmare il montante contributivo accumulato sugli anni e mesi di vita residua, stimata (in media) per una data età di pensionamento. Ad esempio, attualmente l’età della pensione di vecchiaia è di 67 anni, ai quali corrisponde un coefficiente di trasformazione del 5,72%; se ho accumulato ad esempio un montante contributivo di 500.000 euro, il primo anno mi viene riconosciuta una pensione lorda di 28.600 euro, presumendo che la mia speranza di vita sia di ulteriori 17 anni e mezzo. Attualmente in Italia i coefficienti di trasformazione vengono adeguati ogni due anni. Per la prima volta per il biennio 2023-2024 essi sono cresciuti rispetto al biennio precedente, perché la speranza di vita si è ridotta, vuoi per il covid, vuoi per il peggioramento del servizio sanitario.

Il meccanismo descritto è tecnicamente e finanziariamente ineccepibile: in pratica all’assicurato viene restituito quello che ha pagato (rivalutato). L’unica deroga alle regole della matematica finanziaria consiste nel fatto che i coefficienti di trasformazione applicati sono la media di quelli degli uomini e delle donne, mentre dovrebbero essere distinti e più elevati per i primi, che hanno una speranza di vita inferiore di circa cinque anni rispetto a quella delle donne. Questa deroga tecnica è però politicamente condivisibile come scelta solidaristica tra i generi.

La gestione a capitalizzazione

In Italia la gestione dei contributi a capitalizzazione è la modalità obbligatoria per la previdenza complementare. Nella capitalizzazione i contributi pagati da ciascun assicurato confluiscono in una posizione personale, all’interno di un fondo comune, che deve essere separato dal patrimonio e dall’amministrazione del gestore del fondo (dunque inattaccabile dai creditori del gestore).

Gli stock di capitali così accumulati sono investiti nei mercati finanziari, secondo le linee scelte dall’assicurato (prudente o via via più rischiosa), che possono essere modificate annualmente. Il montante finanziario, costituito dai contributi e dai rendimenti conseguiti, deve essere depositato presso una banca terza, rispetto al gestore, a garanzia che le attività finanziarie in cui sono stati investiti i contributi esistano realmente e che siano state rispettate le scelte di investimento degli assicurati.

Poiché la gestione è puramente finanziaria, questo tipo di risparmio previdenziale è soggetto ai rischi dei mercati finanziari, nel senso che i rendimenti potrebbero essere anche negativi e ci si potrebbe trovare con meno soldi di quanti se ne sono versati nominalmente, c’è poi da tenere conto della svalutazione dovuta all’inflazione.

Maturato il diritto alla prestazione, si può chiedere l’intero capitale, oppure questo può essere convertito in una rendita vitalizia (rivalutabile), tramite un’apposita polizza di assicurazione.

La gestione a ripartizione

La gestione a ripartizione – che è quella adottata dalla previdenza obbligatoria in Italia e nella stragrande maggioranza dei paesi – è una gestione per flussi, senza vincolo di destinazione dei contributi riscossi, che alimentano un conto infruttifero presso la Tesoreria dello Stato. Con la gestione a ripartizione il credito dell’assicurato è meramente scritturale, mentre con la gestione a capitalizzazione esso è corroborato dal concreto appostamento di attività finanziarie. La gestione a ripartizione ha il vantaggio per lo Stato di generare una poderosa leva finanziaria, ma espone l’assicurato al rischio che in futuro le risorse pur incassate dall’istituto previdenziale non siano in tutto o in parte disponibili, in caso di fallimento dello Stato (Grecia, Argentina, ecc.).

Nella fase di accumulo sono riconosciuti dei rendimenti, che non sono finanziari (non c’è trading dei capitali), ma convenzionali. In Italia il tasso di rendimento annuale è dato dalla «variazione media quinquennale del prodotto interno lordo (PIL) nominale […] con riferimento al quinquennio precedente l’anno da rivalutare» (legge Dini, art. 1, comma 9). Agganciandolo alla variazione del PIL nominale, il rendimento è composto dal recupero dell’inflazione e dalla partecipazione del lavoratore alla variazione reale del reddito prodotto nel paese (una specie di “dividendo paese”). La scelta di considerare la variazione media annua quinquennale ha lo scopo di smorzare le oscillazioni che si verificano da un anno all’altro e di “compensare” eventuali fasi recessive. Ciò nonostante, per la prima volta, nel quinquennio 2009-2013 si è registrata una variazione media negativa del PIL nominale.

In fase di godimento della pensione, la legge Amato del 1992 aveva previsto un adeguamento annuale pari alla variazione dei prezzi al consumo FOI. A partire dal 1998 (legge Prodi 449/1997) tale adeguamento è riconosciuto integralmente solo ad una prima fascia di reddito pensionistico, attualmente quella fino al triplo dell’assegno sociale (19.627,53 €/anno) e solo parzialmente per le fasce superiori, con fissazione delle fasce e della riduzione degli adeguamenti decise annualmente dai governi. Questa pratica erode le pensioni medie ed elevate. L’adeguamento delle pensioni all’inflazione per fasce di importo è ingiusto, perché lede il principio che la pensione lorda erogata deve dipendere solo dai contributi versati e dall’età di pensionamento. Governi seri non dovrebbero “limare” poco alla volta le pensioni lorde superiori al triplo dell’assegno sociale, ma piuttosto incrementare la progressività e le aliquote fiscali sui redditi medio-alti ed alti, sia da pensione che da lavoro.

Il sistema contributivo, l’età di pensionamento e “chi paga”

Il sistema contributivo ha il vantaggio di essere omeostatico, cioè automaticamente in equilibrio (se si rispettano le regole della matematica finanziaria): più contributi si incassano e più elevata è l’età di pensionamento, più alta sarà la pensione erogata e viceversa. Questa caratteristica rende tecnicamente indifferente l’età del pensionamento. Allora come mai negli ultimi 30 anni tutti i governi, proprio tutti, hanno spostato verso l’alto l’età della pensione, salvo deroghe barocche di facciata e di modesto impatto: “salvaguardie” esodati, “quote” (anni di contribuzione, più età anagrafica), APE sociale? La ragione è che lo Stato italiano non ha la liquidità per onorare tutti i crediti previdenziali maturati dai lavoratori ed allora cerca di rinviarne nel tempo il pagamento. Ciò è scandaloso, perché – come abbiamo visto – con l’attuale sistema contributivo a ripartizione la pensione se la pagano tutta e soltanto i pensionati stessi con i contributi che hanno versato durante la vita lavorativa e che lo Stato deve restituire loro. È infondata l’affermazione – ripetuta come un assioma – che le pensioni dei lavoratori in quiescenza sono pagate da quelli che ora lavorano, perché l’ammontare delle pensioni IVS erogate e quello dei contributi versati da chi lavora adesso rappresentano dei flussi di cassa tecnicamente e socialmente del tutto indipendenti.

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