L’autonomia differenziata – ovvero la devoluzione alle regioni a statuto ordinario delle funzioni indicate agli artt. 116 e 117 cost. – discende dalla riforma del Titolo V della Costituzione, approvata con legge costituzionale 3/2001, introdotta sull’assioma socio-politico che avvicinare i decisori politici ai cittadini migliora lo scambio informativo dal basso verso l’alto ed il controllo delle comunità locali sull’operato delle istituzioni pubbliche; in una parola, migliora la democrazia.
Le cose stanno veramente così? La democrazia è un “oggetto” difficile da inquadrare; tuttavia, a grandi linee, possiamo distinguere tra caratteri formali e informali della democrazia. I primi riguardano le forme tecniche di espressione della volontà popolare: diretta o rappresentativa; maggioritaria o proporzionale; con soglie di sbarramento, quorum, liste aperte o bloccate. I secondi concernono le caratteristiche e il grado di disuguaglianza culturale, economica e di controllo dei mezzi di comunicazione in una comunità. Il grado di democrazia di cui gode una comunità dipende dall’insieme dei caratteri formali e di quelli informali.
Fatta questa premessa, torniamo alla domanda se l’autonomia differenziata può effettivamente rappresentare un progresso sul piano democratico, dato l’odierno stato istituzionale e socio-economico dell’Italia.
Se confrontiamo il sistema elettorale nazionale con quelli regionali (tra loro simili, ma inopinatamente diversi), constatiamo che l’uno e gli altri sono prevalentemente maggioritari, con soglie di sbarramento e premi di maggioranza, dunque analoghi, ma con un carattere maggioritario più marcato e soglie di sbarramento più elevate nei sistemi elettorali regionali. Finché non si è conquistato il suffragio universale (prima solo maschile, poi anche femminile), i sistemi elettorali erano per lo più proporzionali, perché la classi dominanti si garantivano comunque il controllo delle istituzioni elettive tramite il filtro censitario. Per smorzare il carattere egualitario del suffragio universale si è fatto ricorso a sistemi più o meno maggioritari, che ostacolano l’ingresso nei parlamenti di formazioni nuove e consentono alla minoranza più corposa di conquistare il potere politico. Da qui l’argomento mendace del voto utile. Utile a cosa ed a chi? La minoranza parlamentare è dunque inutile? I cittadini sono sollecitati a votare non la formazione politica nelle cui proposte si riconoscono, ma quella con più probabilità di risultare maggioritaria. Gli stessi partiti politici sono indotti a stemperare le loro posizioni per ampliare il potenziale raggio di influenza elettorale, così da diventare la minoranza più forte e conquistare il governo. In Italia non si parla più di destra e di sinistra, ma di centro-destra e di centro-sinistra, come a dire che i due grandi blocchi in fin dei conti si sovrappongono e sono interscambiabili. Il pensiero unico, quello delle classi dominanti, ha prodotto l’ideologia della fine delle ideologie. La conseguenza è un indebolimento della democrazia formale, che ha allontanato milioni di cittadini dall’esercizio del diritto di voto. Alle ultime politiche ha votato solo il 64% degli aventi diritto. Alle regionali i tassi di partecipazione al voto sono ancora più bassi. Se ne conclude che sul piano della democrazia formale – stanti gli attuali sistemi elettorali nazionale e regionali – l’autonomia differenziata rappresenta un regresso.
Venendo alla democrazia informale, un aspetto importante è quello delle disuguaglianze di reddito. Nel 2020 il 20% degli italiani con i redditi più alti hanno conseguito un reddito pari a 5,7 volte quello del 20% degli italiani con il reddito più basso; questo rapporto è ancora più alto in Calabria (6,5), Sardegna (6,9), Campania (7,2), Sicilia (7,3) e Molise (8,6) (indagine EU-Silc). Altro aspetto importante è il tasso di occupazione, che indica la percentuale di occupati nella fascia di età 15-64 anni. Nel 2021 tale indice è stato del 58,2% nella media nazionale, con notevolissime disuguaglianze regionali. Le regioni meridionali ed insulari sono tutte al di sotto della media nazionale, con un valore medio del 44,8% ed il minimo in Sicilia, con il 41,1%. Tutto un altro mondo rispetto al Trentino Alto Adige, che ha il tasso di occupazione più alto con il 69%. Si aggiunga che al Sud sono largamente diffusi i rapporti clientelari e la delinquenza organizzata, inserita anche nell’economia legale e nella pubblica amministrazione. Se ne deduce che per il Meridione l’autonomia differenziata comporta un affievolimento della democrazia informale, mentre nel resto d’Italia genera una maggiore capacità della società civile (intesa come tutto ciò che non è pubblica amministrazione) di influenzare i decisori politici.
Sommando democrazia formale ed informale, nel Meridione l’autonomia differenziata comporta un deciso regresso, mentre nel resto d’Italia il bilancio tra il regresso della democrazia formale ed il progresso di quella informale potrebbe essere positivo. Tale fenomeno accrescerebbe lo svantaggio del Meridione sul piano della democrazia, con quanto ne deriva in termini di tenuta dell’unità nazionale, già messa a rischio dalle endemiche disuguaglianze economiche, infrastrutturali e nell’erogazione dei servizi sociali primari, come la sanità e la scuola.