L’Italia ha la grande necessità di ridurre le disuguaglianze, disuguaglianze che sono venute crescendo nella società e sul territorio, spinte dalle logiche non regolate del mercato e dal succedersi delle cosiddette “emergenze” più o meno reali
– dalla pandemia alla guerra –, amplificate ad hoc da un sistema politico e mediatico sostanzialmente succube e tendente al pensiero unico. Non si tratta più soltanto di differenze riconducibili alla storica questione meridionale, che pure mantiene tutto il suo peso, ma di disparità che attraversano l’intero Paese: tra ricchi e poveri, tra città e campagna, tra costa e entroterra, tra montagna e pianura; disparità territoriali che si sono inevitabilmente trasformate in disuguaglianze sociali. Abbiamo seguito un modello di sviluppo che ha svuotato gran parte del territorio e ha riempito l’altra parte, in primis le città e le coste: uno sviluppo polarizzante in un Paese storicamente e strutturalmente policentrico. Questo è stato un danno molto grande dal punto di vista sociale e ambientale.
Il risultato è che ci sono strati sociali e ambiti territoriali nei quali è minore l’accesso ai diritti e alle opportunità. Così oggi per tante persone è più difficile frequentare una scuola o un asilo, utilizzare mezzi di trasporto, fruire dei servizi sanitari, trovare un’occupazione, esercitare un mestiere o una professione, fare sport o andare all’università. Tutto ciò contrasta con la nostra Costituzione, che nel fondamentale articolo 3 afferma l’uguaglianza dei cittadini e stabilisce che la Repubblica è tenuta a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. La politica ufficiale, sostanzialmente piegata all’economia e ai poteri forti, ha fallito su questo, facendo aumentare tali ostacoli anziché rimuoverli.
Regioni come il Molise sono l’emblema delle aree interne italiane, vittime sacrificali di politiche che sul lungo periodo hanno privilegiato i poli urbani, industriali e commerciali, trascurando la maggior parte del territorio italiano: campagne e paesi spopolati e marginalizzati, feriti e qualche volta perfino derisi. Non si tratta affatto di disuguaglianze ineluttabili, ma frutto di scelte compiute, di una incapacità del sistema politico di riequilibrare un modello di sviluppo squilibrato, di restare dalla parte delle persone, delle comunità locali, dei territori. Il neoliberismo, anche nelle sue recenti versioni nazionali – renziane, draghiste o meloniane – riproduce le logiche della competizione, del privato e del mercato, del merito e dell’eccellenza che sono il contrario dell’uguaglianza. Queste politiche, sbagliate o mancate, portano la responsabilità di una società disgregata e disuguale e di un territorio sempre più insidiato e abbandonato. Ecco perché lo scopo primario di chi si impegna nella cultura come nella politica deve essere quello di ridare voce a chi l’ha perduta, riportare al centro chi è finito ai margini non per colpa del destino, ma di chi ha governato fin qui lo Stato e le Regioni: centrodestra o centrosinistra non sono stati in grado di arrestare il processo di declino, tanto meno di invertirlo; incapaci entrambi di lanciare l’idea di un modello alternativo, di giocare un’altra partita: quella della solidarietà al posto della competizione, della giustizia sociale e ambientale al posto degli interessi economici, della cooperazione tra le regioni contro la cosiddetta autonomia differenziata che di fatto sarebbe la “secessione dei ricchi”. Le aree interne – campagne e paesi, territori fragili e lontani – dove è più impellente il bisogno di rinascita, ricche di una umanità profonda ma stanca, un patrimonio territoriale diffuso ma dimenticato, possono essere un ambito privilegiato per la sperimentazione di una nuova idea di politica, di una uguaglianza dei territori che stimoli una effettiva uguaglianza tra i cittadini.