Negli ultimi decenni abbiamo assistito al cambiamento della composizione sociale dell’elettorato dei partiti di sinistra con la perdita di votanti tra i gruppi sociali meno abbienti. Le profonde trasformazioni che hanno riguardato le democrazie occidentali a partire dalla fine del secolo scorso, con il tramonto del fordismo e l’avvio della globalizzazione, hanno messo in
difficoltà i partiti di sinistra poiché alla classe operaia di tipo fordista si è sostituita una galassia di soggetti caratterizzati da basso reddito, elevata discontinuità dei rapporti di lavoro ed eterogeneità delle condizioni di lavoro e di vita. Il mantenimento del consenso sull’elettorato tradizionale così come l’attrazione dei nuovi lavoratori sono diventati obiettivi difficili per la sinistra del nuovo millennio, la quale ha usato la scorciatoia di politiche “liberal” per ampliare il suo consenso cercando di attingere dai ceti medi, con contrazione delle politiche redistributive a favore delle sue basi elettorali tradizionali (operai) e potenziali (salariati dei servizi).
Tuttavia il declino della sinistra si manifesta molto meno nei paesi scandinavi dove, anche grazie anche alla forte tradizione socialdemocratica, la sinistra ha continuato a presidiare la rappresentanza dei gruppi sociali deprivilegiati ed è stata più incisiva ed efficace nel contrasto delle tensioni sociali e delle nuove disuguaglianze. Appare decisiva la capacità di dar voce e rappresentanza ai gruppi più deboli facendo della redistribuzione una leva per lo sviluppo. Del resto, scriveva Bobbio nel lontano 1984, “se vi è un elemento caratterizzante delle dottrine e dei movimenti che si sono chiamati e sono stati riconosciuti universalmente come sinistra, questo è l’egualitarismo, inteso, ancora una volta, non come l’utopia di una società in cui tutti gli individui siano eguali in tutto, ma come tendenza a rendere più eguali i diseguali”.