In un contesto in cui il governo sta progressivamente intensificando la repressione e il controllo sociale, il DDL Sicurezza n. 1660 solleva gravi preoccupazioni, non solo per la sua compatibilità con i diritti civili, ma anche per il rischio di trasformare la nostra società in un luogo di sorveglianza e paura, piuttosto che di libertà e pluralismo. Presentato a gennaio e approvato lo scorso settembre alla Camera, ora in discussione al Senato, questo disegno di legge si inserisce in perfetta continuità con il decreto “anti-rave”, dove, più che garantire la sicurezza, si tenta di alimentare la paura e il sospetto.
Le misure contenute nel DDL sollevano interrogativi cruciali riguardo alla loro compatibilità con i principi costituzionali, in particolare con il diritto di dissentire e con la tutela dei diritti civili. Tra le novità più problematiche, si prevede l’eliminazione dell’obbligatorietà del rinvio della pena per le donne incinte, il divieto di vendita della cannabis light, l’aumento delle pene per chi minaccia o usa violenza contro i pubblici ufficiali, e l’inasprimento delle sanzioni per multe e sospensioni della patente. L’obiettivo sembra essere quello di rendere più severe le punizioni per alcuni crimini e garantire una maggiore protezione ai pubblici ufficiali.
Il dibattito sul DDL Sicurezza ha sollevato anche gravi preoccupazioni sull’autonomia delle istituzioni accademiche. L’articolo 31 del DDL prevede infatti che università ed enti di ricerca siano obbligati a collaborare con i servizi segreti, sollevando inquietanti dubbi in merito alla libertà di ricerca. Secondo l’Associazione Italiana per la Scienza Aperta (AISA), questa previsione esporrebbe studenti, ricercatori e accademici a controlli e sorveglianze, trasformando le università da luoghi di libertà intellettuale in spazi di monitoraggio.
L’aspetto più preoccupante è rappresentato dalla norma definita “anti-Gandhi”, che punisce chiunque pratichi forme di resistenza passiva con pene fino a 20 anni. Questa misura rischia di creare un pericoloso precedente, penalizzando qualsiasi forma di disobbedienza civile, a prescindere dal contesto. La sua applicazione potrebbe inficiare il diritto di manifestare dissenso, un diritto fondamentale in una società democratica.
Le preoccupazioni sollevate da numerose organizzazioni, giuristi e istituzioni, come Antigone, Forum Droghe e Rete Lenford, sono pienamente giustificate. L’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) ha infatti dichiarato che “molte delle disposizioni del disegno di legge potrebbero minare i principi fondamentali del diritto penale e dello stato di diritto, ostacolando l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali”.
In un’ottica democratica, se la legge non riconosce il dissenso come un valore fondamentale per il progresso sociale, ma lo considera una minaccia da combattere, rischiamo di trovarci intrappolati in un sistema dove la partecipazione civica e la critica sociale sono bandite e la libertà di pensiero e di espressione perde di significato. La società potrebbe trasformarsi in un luogo di controllo, piuttosto che di partecipazione. In questo scenario di deriva autoritaria, dobbiamo chiederci con coraggio e consapevolezza: fino a che punto siamo disposti a sacrificare la nostra libertà per una sicurezza che, in realtà, potrebbe minacciare la nostra stessa identità di cittadini liberi? La risposta a questa domanda determinerà il futuro del nostro paese. Una riflessione profonda non è più rinviabile, perché la posta in gioco è altissima: noi, la democrazia.