La comunità in cui viviamo sta cambiando di dimensione, essa non è più la nazione ma il mondo intero; in consequenza potremo definire la globalizzazione come uno stato di connettività complessa della società che ha degli effetti sociali molto profondi sull’intera comunità mondiale. L’esplosione delle disuguaglianze è uno di questi effetti sociali causati dalla globalizzazione economica.
La tesi secondo cui la “crescita” sia un bene anche per i poveri è un mito neoliberista destituito di qualsiasi fondamento anche teorico, tant’è che manca una qualsiasi ricerca sufficientemente accurata volta a dimostrare tale assunto. La realtà è che la crescita fallisce tale obiettivo e, piuttosto, peggiora le condizioni dei più poveri.
La globalizzazione, infatti, consegna il potere decisionale alla mercé del grande capitale mentre i lavoratori delle diverse nazioni entrano in competizione tra loro. Si determina così precarizzazione del lavoro, crescita esponenziale delle disuguaglianze a livello mondiale, ritorno della povertà anche nelle società avanzate, difficoltà per i giovani ad entrare nel sistema produttivo che tende addirittura ad escluderli.
Si affaccia sulla scena del dibattito europeo una recente forma, finora sconosciuta, di diseguaglianza tra i lavoratori stabili, assunti con un contratto a tempo pieno e di durata indeterminata, e i lavoratori flessibili o precari. Si tratta degli operai e degli impiegati assunti a tempo parziale, dei lavoratori con contratti a tempo determinato oppure dei dipendenti assunti con contratto interinale e, infine, di quadri e dirigenti licenziati e utilizzati come liberi professionisti che emettono fattura. In Italia, secondo i dati ISTAT, i nuovi ingressi al lavoro in forma atipica superano ogni anno il 65 % del totale. In ciò si riflette un programmatico trasferimento di rischio dalle imprese agli individui.