LA GRANDE AMERICA DI TRUMP È UN GRANDE INGANNO

di Gianni PRINCIPE

Che a sinistra si fosse a disagio nel giudizio sul candidato “male minore” nelle presidenziali USA è comprensibile: non lo è altrettanto gioire, come avviene qua e là, per la vittoria di Trump. Ritenere che la prospettiva che si apre possa essere più favorevole è un’illusione pericolosa, perché il solco in cui si muoverà è in gran parte tracciato: la maggiore differenza sta

nella singolarità eccentrica del personaggio che lascia aperta qualche incognita, che dalla Harris non ci si poteva aspettare. Ma ora è necessario farsi un’idea più approfondita delle alternative che possono presentarsi.

I commenti sui motivi della vittoria convergono attorno a due principali spiegazioni, che riguardano l’economia e la guerra. L’economia USA non è andata male con Biden, che ha preso anche alcune misure pro-labour, ma le disuguaglianze sono aumentate alimentando lo scontento su cui ha fatto leva Trump con il suo MAGA (Make America Great Again). A questo si è aggiunto l’impegno economico per la guerra assunto dai Dem e le prese di posizione per una sua continuazione a oltranza, mentre Trump prometteva di non farne altre e di chiudere quelle in corso.

Altri fattori sono stati chiamati in causa, il ritiro tardivo di Biden, il profilo della Harris, l’efficacia della comunicazione (mentre si dà scarso peso alle differenze sul tema dei migranti). Limitandoci a quelli considerati decisivi dai più, il MAGA nasconde una contraddizione (o un dilemma) che attende al varco il neo-presidente e che si ripercuote sull’altra promessa fondamentale: in che senso si promette un’America più grande?

Per il ceto medio impoverito e per gli abitanti degli stati interni la grandezza è quella della società che cresce, certa di vivere in una roccaforte inespugnabile e di poter far debiti perché il futuro è garantito. Che può quindi rimuovere il ricordo delle Torri Gemelle e della crisi dei sub-prime.

Hanno, insomma, creduto alla promessa di finire con le guerre e alzare barriere: fisiche ma dalla valenza fortemente simbolica, verso i migranti; immateriali ma dagli effetti assai concreti, verso le merci di importazione. Senonché, le barriere immateriali reggono solo in un quadro che richiede come condizione ineliminabile la capacità di dissuasione (militare), sul terreno e nei cieli, nelle centrali di intelligence e negli organi di informazione: sempre che sia scongiurato il rischio che siano violate in un conflitto nucleare. Mentre quelle economiche, i dazi, non hanno l’effetto di consentire di produrre negli USA invece di comprare da fuori, creando così lavoro, ma quello di far salire il prezzo delle merci USA, a beneficio dei guadagni di chi le produce e le vende.

Bene, si potrebbe pensare, il tradimento delle promesse può costare caro a Trump. Ma qui si apre il dilemma sul modo in cui si scioglie la contraddizione perché, in un quadro sostanzialmente bipartitico, la sola alternativa è rappresentata dai Dem, che non intendono certo scontentare i potenti soggetti economici e i ceti che sono la loro base di consenso: che diminuisce di numero ma è sempre più agguerrita, essendosi arricchita con l’ingigantirsi dei maggiori fondi di investimento.

Viceversa, non si può assolutamente sottovalutare l’evoluzione che sta avvenendo sul versante repubblicano, che ora si impadronisce della Casa Bianca e del Campidoglio. Quello che si sta formando è un corposo movimento, non solo di idee ma di mezzi: non solo denaro ma tecnologie, non solo adepti ma guerrieri assoldati, che in un primo momento ha preso piede trasversalmente tra i due partiti, occupando posti chiave nell’Amministrazione e in quello che si usa definire come il Deep State.

Quel movimento è ben inserito e assai influente nel mondo che circonda Trump (ed è fonte di ispirazione da tempo per il circolo Meloni-Atreju). Bannon (da poco uscito di prigione) è uno dei suoi principali ideologi e Musk, pur nel suo sfrenato individualismo, ha con loro forti punti di contatto. Possiamo anche dargli un nome, perché è sempre più riconoscibile e chiaro il suo retroterra ideologico, le sue radici storiche, i valori, la cultura: si definisce come suprematismo bianco ed è l’evoluzione, giunta ai giorni nostri, del nazifascismo. Non la semplice riproposizione del nazionalsocialismo hitleriano e del fascismo nostrano ma pur sempre l’antitesi rispetto al pensiero democratico figlio delle rivoluzioni borghesi, soprattutto quanto alla negazione in radice del valore dell’uguaglianza e all’accezione individualistica (verrebbe da dire superomistica) della libertà.

Sarebbe un grave errore sottovalutare il ruolo che avrà questo movimento politico nelle scelte di Trump di maggiore peso strategico, perché ha l’ambizione di presentarsi come soluzione alternativa, in un estremo tentativo, per tenere in piedi il sistema capitalistico in profonda crisi di prospettive dopo che la ricetta neoliberista, il mercato basato sulla concorrenza “perfetta” e lo Stato “minimo”, ha fallito lasciando il posto alla competizione solidale (non è un ossimoro) tra grandi aggregati monopolistici che lo Stato non è più in grado di regolare.

Dove può portare questa deriva non possiamo prevederlo con certezza ma è chiaro che contiene in sé i germi della disgregazione sociale e della devastazione ambientale: cresce perciò, nella corrente di pensiero che ancora possiamo definire come sinistra, la convinzione che se non trova ostacoli poderosi che ne riescano a deviare il corso, potrà diventare una valanga in grado di travolgere il panorama in cui oggi siamo inseriti, le condizioni della nostra specie e quelle del pianeta che ci ospita.

Possono bastare quattro anni perché producano una simile catastrofe (nel senso che ha il termine nel campo della fisica)? Fino a portarla a compimento, probabilmente, no. Ma la deriva potrebbe arrivare a un punto tale da rivelarsi irreversibile o, al più, arginabile solo nei suoi aspetti estremi.

Il 99% a cui faceva riferimento il movimento no-global sembra essersi ristretto molto ma in realtà si è in gran parte inabissato nella rassegnazione e nel fatalismo. Il tempo della storia, abbiamo imparato che conosce accelerazioni e perfino esplosioni: chi è consapevole ed è in condizione di farlo deve rispondere alla chiamata. Le ultime generazioni, i movimenti che intravedono il rischio di un’estinzione si stanno mobilitando ma c’è un salto da compiere. Qui è Rodi, qui si deve ballare.

Autore

  • Giovanni Principe, detto Gianni, dirigente storico della Cgil, laureato in Architettura ed Economia del territorio, opinionista ed autore di varie pubblicazioni. Da 40 anni al lavoro, su economia e politiche del lavoro (Ispe, Cgil, Isam, Isae, Isfol). Impegnato per cambiare le cose; è il modo giusto di vederle.

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