I fautori dell’autonomia differenziata sostengono che non esiste il rischio di spaccare l’Italia in 21 staterelli (le 19 regioni e le due province autonome di Trento e Bolzano), ciascuno con diverse quantità e qualità dei servizi pubblici, perché ovunque saranno garantiti i livelli essenziali delle prestazioni (LEP). La tesi è meramente propagandistica. La sua fallacia può essere dimostrata non solo con argomenti logici, che potrebbero essere non capiti, specialmente da chi non vuole capire, ma anche con fatti concreti, che – ha detto Lenin – hanno la testa dura.
I fatti da prendere a modello sono quelli che hanno caratterizzato e tutt’ora caratterizzano il servizio sanitario nazionale. Istituito con la legge 833/1978 con una governance centralizzata, è stato successivamente regionalizzato ed aziendalizzato (dalle USL alle ASL) a partire dal DLgs 502/1992 e poi dal DLgs 517/1993, dalla legge 419/1998, dal DLgs 229/1999, per culminare con la riforma del Titolo V della costituzione (legge cost. 3/2001) che ha affidato alle regioni ed alle province autonome la competenza esclusiva della organizzazione e regolazione dei servizi sanitari pubblici regionali, mentre allo Stato centrale resta la competenza nel definire gli indirizzi generali ed i LEA, cioè i livelli essenziali delle prestazioni assistenziali, che sono a tutti gli effetti antesignani dei LEP. I LEA sono stati introdotti dal DLgs 56/2000 (cd. federalismo fiscale) e disciplinati dal DM 12/12/2001.
I LEA ed i LEP altro non sono che una “bilancia” creata per misurare le prestazioni erogate; ma costruire uno strumento del genere è affare piuttosto complesso ed incerto nella sua capacità di misurazione. All’inizio i LEA si fondavano su un set di un centinaio di indicatori; nel 2014 la Conferenza Stato Regioni condivise che tali indicatori non fornivano un quadro sufficientemente attendibile dei servizi sanitari regionali e si decise – nelle more della ridefinizione dei criteri – di adottare una griglia di 33 indicatori, riferiti a tre aree: prevenzione, assistenza distrettuale (detta anche “territoriale”) ed assistenza ospedaliera. Finalmente il DM 12/03/2019 ha introdotto i nuovi LEA, applicati dal 2020. Il nuovo set è costituito da 88 indicatori, ma per le valutazioni politico-economiche si è scelto di usare solo 22 indicatori, detti core (in italiano “centrali”): 8 nell’area prevenzione, 8 in quella distrettuale e 6 nell’ospedaliera. Che fatica! E a distanza di una ventina d’anni dalla loro istituzione non sappiamo ancora quanto i LEA siano affidabili. Quanto sarebbe complessa ed opinabile la determinazione di sistemi di misurazione di 10 o 20 LEP?
Oltre alle suddette difficoltà tecniche, c’è un difetto concettuale di fondo dei LEA come dei LEP: l’aggettivo “essenziale”, che confligge con il principio costituzionale dell’eguaglianza dei cittadini e del loro diritto a prestazioni uniformi dei servizi pubblici. Realisticamente, uniformi non può voler dire identiche, ma analoghe sì. Quali sono i punteggi dei nuovi LEA? Essi vanno da zero a 100 e si considerano “sufficienti” 60 punti. Un intervallo di 40 punti, tra la sufficienza e l’eccellenza, autorizza ad affermare che ai cittadini di regioni diverse viene fornito un servizio analogo, oppure è la presa d’atto formale della discriminazione territoriale tra i cittadini? Dal grafico seguente, che mostra i punteggi LEA core relativi al 2021 (ultimi dati disponibili), si nota una grande variabilità da regione a regione; non solo, è evidente che tra il servizio sanitario dell’Emilia Romagna e quello della Basilicata c’è un divario enorme, pur essendo quest’ultima oltre la soglia dei 60 punti in tutte le aree; per non parlare della Valle d’Aosta e della Calabria, che sono sotto soglia in tutte le aree, o del Molise, che consegue il peggiore punteggio nazionale nell’area ospedaliera.
LEA core 2021 per aree nelle regioni e province autonome italiane
(Fonte: Ministero della Salute, Monitoraggio LEA 2021, pag. 23.)
Mettere sullo stesso piano la sanità dell’Emilia Romagna e quella della Basilicata vuol dire falsificare smaccatamente la realtà e lo dicono gli stessi indici LEA. Peggio ancora per chi è sotto la soglia considerata sufficiente. Come si salvaguardano i cittadini che risiedono in quelle regioni? In che modo i LEA/LEP li garantirebbero? Evidentemente i LEA/LEP non garantiscono un bel niente ed è già tanto se riescono a stimare in modo decente il livello delle prestazioni erogate.
L’esperienza più che trentennale della regionalizzazione del servizio sanitario pubblico si è dimostrata un fallimento, con gravi ripercussioni sulle popolazioni delle regioni più arretrate. Nonostante questo, con l’autonomia differenziata si vuole estendere la regionalizzazione alle seguenti materie: «giudici di pace»; «norme generali sull’istruzione»; «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali»; «rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale». In tutte queste materia lo Stato centrale si limiterebbe a determinare i principi fondamentali.
Così si sfascia l’Italia. La cosa al tempo stesso tragica e ridicola è che l’autonomia differenziata è promossa con forza da partiti che ad ogni piè sospinto si ammantano del tricolore.