Il Reddito di cittadinanza, che è presente in tutte le nazioni europee con importi spesso più importanti di quelli che erano finora previsti nel nostro paese, viene introdotto per la prima volta in Italia nel 2019 esso ha spostato, come mai prima, nella storia della nostra nazione, 8 miliardi di euro l’anno dalla fiscalità generale ai due decimi più poveri della distribuzione del reddito, riuscendo, come non avveniva dagli anni 90 del secolo scorso, ad ottenere una riduzione della disuguaglianza tra il 20% della popolazione più ricca e il 20% dei più poveri nel Paese.
In Germania, uno dei primi paesi a introdurre una forma di tutela per chi fosse senza lavoro, questo strumento, il Bürgergeld, dopo l’ok del Senato federale tedesco, sarà, a partire dal prossimo anno, addirittura potenziato. Quindi in Germania la misura vede un allargamento della platea che si avvicinerà quasi ai 5 milioni di persone. In alcuni stati come Svezia, Slovacchia e, recentemente, Spagna, il sistema è centralizzato a livello nazionale, mentre in altri tra cui Austria e Paesi Bassi è gestito localmente. In Spagna il governo socialista di Pedro Sánchez ha introdotto nel 2020 l’Ingreso Minimo Vital (IMF), una misura di welfare per garantire a disoccupati e famiglie in difficoltà un assegno che va da un minimo di 462 a un massimo di 1.015 euro al mese. L’importo dell’IMV varia a seconda della dimensione del nucleo familiare, viene erogato in 12 mensilità ed è cumulabile con altri tipi di prestazioni sociali. Il fine ultimo della misura è soprattutto il contrasto alla povertà. E, proprio per questo, la misura prevede requisiti meno stringenti rispetto ad altri Paesi e può essere richiesto anche dagli stranieri che si trovano da almeno un anno in Spagna. In Francia, chi ha più di 25 anni ed è disoccupato può richiedere il Revenu de solidarité. Il sussidio è stato introdotto nel 2008e prevede un supporto economico che va da circa 500 euro – in caso di mono nucleo familiare – a circa 1.000 euro per le coppie con figli. La misura non ha nessun limite temporale. La misura può essere richiesta anche per integrare i redditi dei lavoratori sotto la soglia fissata annualmente per raggiungere il reddito minimo. Per incentivare chi beneficia del Rsaa rientrare nel mercato del lavoro, il governo francese ha varato anche il Prime activité, una sorta di integrazione dello stipendio che può essere richiesta da chiunque guadagni meno di 1.800 euro (una volta e mezzo il salario minimo legale). La soppressione del Reddito di Cittadinanza sostituito con l’Assegno all’Inclusione, una misura categoriale rivolta esclusivamente alle famiglie con minori, anziani o disabili, costituisce una profonda e preoccupante novità rispetto al criterio di universalità selettiva che aveva caratterizzato le due precedenti misure nazionali di contrasto alla povertà, prima il Rei e poi il Rdc. Viene infatti abbandonato il principio del reddito minimo (oggi, come visto, vigente nella maggior parte dei paesi europei), il quale prevede che qualsiasi nucleo familiare che si trovi in condizione di povertà debba ricevere un sostegno minimo al reddito. La conseguente riduzione della platea degli aventi diritto è infatti rilevante.
Ma persino la revisione peggiorativa fatta del governo Meloni, che non riconosce circa 600 mila nuclei famigliari dal Rdc (non entreranno nel nuovo programma a causa dei criteri rigidi di accesso), lascia comunque una spesa di circa 5 miliardi per circa 700 mila nuclei che prenderanno l’assegno di inclusione, e rappresenta una risorsa inimmaginabile per tutti i governi italiani, fino al 2018, che al massimo avevano destinato 1,5 miliardi alla lotta alla povertà. Bisogna riconoscere e ricordare che il decreto Dignità nel 2018, dopo anni di flessibilità selvaggia e sfruttatrice dei precari e poveri, ha aggredito, per la prima volta, la flessibilità del lavoro che diventa solo precarietà, ponendo delle causali come giustificazione per l’utilizzo del lavoro temporaneo, al fine di eliminare gli enormi abusi, che si erano avuti, e limitare la precarietà di reddito e la condizione di profonda instabilità dei lavoratori. Questo provvedimento che ancora nel 2023 riesce a dare ancora buoni frutti, restringendo lo spazio per il lavoro a tempo determinato almeno fino a maggio 2023. Dopo abbiamo la revisione, anche questa molto peggiorativa, del governo Meloni, effettuata col cosiddetto decreto 1° maggio, che non abolisce definitivamente il dl Dignità, ma affida alle parti (aziende e lavoratori) la facoltà di derogare alle causali. Sappiamo benissimo che effetti peggiorativi per i lavoratori si avranno da questo tipo di deroga. In effetti il governo si lava le mani delle responsabilità della precarietà e, non tenendo conto del dato di fatto inconfutabile che il lavoratore è sempre l’anello debole nel rapporto di lavoro, lo abbandona inesorabilmente a se stesso, alla mercé del datore di lavoro. Infatti avremo il dato certo che nel prossimo futuro il lavoro temporaneo aumenterà ulteriormente, lasciando milioni di lavoratori senza nessuna tutela.
Sul salario minimo, provvedimento presente in tutte le legislazioni europee, ad esempio in Germania è fissato a 12 Euro l’ora. In Italia, secondo i dati Inps, i lavoratori con bassi salari (meno di 1.000 euro mese) sono il 29% e oltre 4 milioni guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora.
I settori in cui si concentrano i bassi salari sono i servizi, la ristorazione il turismo, il commercio, la logistica, i trasporti, i servizi alla persona, le pulizie, la vigilanza, l’agricoltura. La contrattazione collettiva non riesce, soprattutto in questi settori, ad alzare i salari: sono i settori più frammentati dell’economia, dove esiste molta contrattazione pirata, con lavoratori meno sindacalizzati e rapporti di lavoro caratterizzati da temporaneità e altissimo turn over. Anche per questo è necessario, e nemmeno sufficiente, un salario minimo legale, che sicuramente non sarebbe di intralcio alla buona contrattazione in migliori settori dell’economia, e non potrebbe abbassare sotto i 9 euro il salario orario. Ma eviterebbe il diffusissimo sfruttamento, altamente presente in Italia in tutti i settori con bassi salari. Ricordiamo, non lo si fa abbastanza mai, che il numero dei poveri assoluti è salito a 5,6 milioni di persone, abbiamo circa 3 milioni di lavoratori precari e in media ogni anno circa 4,2 milioni di rapporti di lavoro a termine, sia nel pubblico che nel privato.
Oggi nel nostro paese tasse e bassi salari comprimono la classe media tanto da renderla quasi indistinguibile dai lavoratori più poveri. L’inflazione negli ultimi due anni ha eroso circa il 15% del potere d’acquisto e le rinunce nei consumi sono cresciute. La disoccupazione giovanile intorno al 25% è tra le più alte in Ue e i nostri giovani laureati con fatica trovano lavoro adeguato alla loro professionalità e sempre più spesso emigrano all’estero, dove tutti i giovani italiani sono apprezzati e riescono ad avere salari e stipendi che di solito sono il doppio di quelli che avrebbero in Italia, a parità di condizioni lavorative, con il riconoscimento della stabilità del rapporto di lavoro. Tutti gli studiosi riconoscono che abbiamo un’area del disagio economico di circa 12 milioni di persone, si tratta di disoccupati, persone povere inattive, precari, giovani insoddisfatti, lavoratori poveri, e parti importanti della classe media. Questa enorme area di disagio mette in evidenza che le disuguaglianze ci avvicinano pericolosamente verso un modello economico che inevitabilmente sarà caratterizzato da bassi consumi e bassi salari, con crescita economica ridotta. Tutti gli economisti sono concordi che un modello che vuole fare competizione solo sul costo del lavoro, rendendo bassi i salari, piuttosto che sull’innovazione, con meno industria e più servizi a basso contenuto tecnologico, e sfruttamento del lavoro, non porta alla crescita economica e ad un futuro florido per la stragrande parte della popolazione. Bisogna tenere conto anche che la trasmissione intergenerazionale della povertà è più intensa che nella maggior parte dell’Ue: quasi un terzo degli adulti tra 25 e 49 anni a rischio povertà inesorabilmente proviene da famiglie povere. Evidenza che stronca l’assurda “narrazione della meritocrazia”, del disagio economico come colpa delle persone, ma chiaramente deriva da motivi “ereditari” chi è povero, proviene da una famiglia povera, rimane povero. Quindi il modello italiano attuale è, senza ombra di dubbio, un modello che si addice più a un’economia povera di un paese sottosviluppato che a una nazione che sia economicamente fiorente, con opportunità di realizzarsi per i giovani e tutti i cittadini, non solo per una piccola minoranza di super ricchi. Stiglitz, il professore della Columbia University, premio Nobel per l’Economia sostiene che “le diseguaglianze sono in crescita in tutto il mondo e i governi di destra devono sapere che tagliando le tasse ai più abbienti la povertà e le ingiustizie aumentano”. Tanto aumentano le povertà e le ingiustizie che secondo Stiglitz: “La ricchezza nelle mani di pochi [comporta] una tragedia collettiva che minaccia la [stessa] democrazia”, in fondo bisogna sempre tenere presente che “Le diseguaglianze non sono inevitabili”, sono evitabilissime. Incomprensibile sembra il vero e proprio odio di classe espresso contro chi, povero senza volerlo essere, ha percepito il reddito di cittadinanza in Italia.