Il sistema di governance per l’attuazione e il monitoraggio delle “missioni” e delle “componenti” previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, disegnato dal d.l. n. 77 del 2021, è assai articolato e complesso. In questa sede, si richiameranno soltanto gli aspetti che appaiono confermare una tendenza che ormai da decenni affligge le democrazie, in particolare quella italiana: la marginalizzazione della politica, e segnatamente delle Assemblee parlamentari, nell’ambito del processo decisionale.
L’art. 2 del citato decreto disciplina la “Cabina di regia”,preposta in via generale all’indirizzo, impulso e coordinamento della fase attuativa del PNRR. Essa è istituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. Vi partecipano i Ministri (ed i Sottosegretari di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri) competenti, in ragione delle tematiche affrontate in ciascuna seduta e il Ministro per gli affari regionali e le autonomie, in relazione alle tematiche di rilievo territoriale.
L’art. 4 dispone la costituzione di una “Segreteria tecnica”, che ha funzioni di supportoalle attività della Cabina di regia, nominata tramite DPCM (sulla base di criteri che non sono chiariti). La sua durata, temporanea, è “superiorea quella del Governo che la istituisce” e si protrae fino al completamento del Piano nazionale di ripresa e resilienza (comunque non oltre il 31 dicembre 2026).
Il monitoraggio e la rendicontazione del Piano sono poi affidati al “Servizio centrale per il PNRR”, istituito presso la Ragioneria generale dello Stato, che rappresenta il punto di contatto nazionale con la Commissione europea per l’attuazione del Piano. Tale apparato è responsabile della gestione del Fondo di Rotazione del Next Generation EU-Italia e dei connessi flussi finanziari, nonché della gestione del sistema di monitoraggio sull’attuazione delle riforme e degli investimenti del PNRR ed assicura il supporto tecnico alle amministrazioni centrali titolari di interventi previsti nel PNRR (art. 6).
Emerge dunque un quadro nel quale il potere decisionale risiede saldamente nel raccordo tra apparati tecnici e Presidenza del Consiglio, coadiuvata da un nucleo ristretto di Ministri. Un ruolo marginale è attribuito al Governo nella sua collegialità e, in misura ancor più marcata, al Parlamento nelle sue articolazioni.
La situazione non sembra mutata nella sostanza con l’entrata in vigore della legge di conversione del decreto in parola (la n. 108/2021), che, all’art. 1, ha delineato il ruolo delle Commissioni parlamentari, disponendo che “al fine di monitorare l’efficace attuazione dei progetti previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e il rispetto dei termini entro i quali i progetti medesimi devono essere completati sulla base del calendario concordato con le istituzioni europee, il Governo fornisce alle Commissioni parlamentari competenti le informazioni e i documenti utili per esercitare il controllo sull’attuazione del PNRR e del Piano nazionale per gli investimenti complementari al PNRR”. Invero, tale norma istituisce obblighi informativi del tutto ovvi – che sussistono a prescindere da essa! – che peraltro sono funzionali all’esercizio di funzioni assai limitate: sulla base dei dati acquisiti, le Commissioni “formulano osservazioni ed esprimono valutazioni utili ai fini della migliore attuazione del PNRR nei tempi previsti”. In altre parole, le Commissioni possono esprimere il loro parere (!), che risulta soltanto eventuale e non vincolante: si tratta evidentemente di un ruolo del tutto secondario.
La marginalizzazione del Parlamento è un fenomeno ormai tristemente stabilizzato nel nostro sistema, nel cui solco si è certamente collocato lo stesso procedimento di approvazione del Piano. Il Parlamento, per più di tre mesi, ha discusso su un testo – quello depositato dal Governo Conte II il 15 gennaio – che è stato poi sensibilmente modificato dal Governo Draghi, e presentato da quest’ultimo non prima del 25 aprile alle Camere, che hanno avuto soltanto cinque giorni per discutere e deliberare prima del suo invio alle istituzioni europee (30 aprile). A tal proposito, non può non registrarsi un preoccupante doppiopesismo da parte di una significativa quota di analisti e commentatori: il Governo Conte II veniva spesso accusato di una tendenza all’accentramento ed alla verticalizzazione del processo decisionale mentre, in occasione dell’approvazione del PNRR siglato Draghi, ben poche voci critiche si sono levate in relazione allo scarso rispetto del ruolo del Parlamento. Questo è segno evidente che la sua difesa non è, da parte di molti, sincera, bensì strumentale ad attaccare una parte politica (e talvolta una persona), sulla scia di una deriva faziosa del sistema dell’informazione. Ciò offende non solo e non tanto la parte o la persona che è il bersaglio dell’attacco strumentale, ma la stessa dignità del Parlamento, usato come grimaldello per operazioni di convenienza politica (cui l’attività giornalistica dovrebbe rimanere rigorosamente estranea).
Nel Parlamento, invece, si sarebbe dovuto individuare il centro dell’attività tesa all’attuazione del piano, per diverse ragioni.
Anzitutto, in una forma di governo parlamentare quale quella italiana, si tratta dell’unico organo direttamente eletto dai cittadini, e dunque il più vicino a loro.
In secondo luogo, è la sede della rappresentanza politica, ove tutti gli orientamenti presenti nella società hanno (o dovrebbero avere) piena voce. È un organo, infatti, in cui non siede la sola maggioranza, ma tutte le forze politiche espressione degli orientamenti plurali presenti nella società. A tal proposito, vi è certamente da rilevare che l’Italia sta attraversando una fase anomala, che costituisce un unicum tra le grandi democrazie occidentali: la quasi totalità delle forze politiche fa parte della maggioranza. Ciò, evidentemente, non fa bene alla dialettica democratica, poiché disabitua ad un fisiologico e genuino dibattito politico e pubblico; il che è testimoniato, di recente, anche dalla partecipazione della Ministra della Giustizia Marta Cartabia alla kermesse di Fratelli d’Italia (Atreju), nonostante non sia sua abitudine prendere parte a manifestazioni politiche: come da lei stessa affermato, lo ha considerato “un atto dovuto perché in una democrazia si dialoga soprattutto con l’opposizione”, e il gruppo guidato da Giorgia Meloni (insieme alla ristretta rappresentanza di Sinistra Italiana) rimane l’unica opposizione.
Invece, qualunque voce dissonante sembra oggi per lo più percepita – anche a causa di una certa narrazione dei grandi mezzi di informazione – come un fastidioso intralcio all’azione dei ‘migliori’, e non come un proficuo stimolo alla verifica della solidità e fondatezza delle posizioni della maggioranza, come dovrebbe avvenire in una normale dinamica democratica. In questo contesto, è chiaro che si fa più fatica a cogliere quanto vitale sia per un sistema democratico che al centro del suo funzionamento si collochi un organo plurale, come il Parlamento, e non espressione di una sola parte, come il Governo (o, per meglio dire, il suo ‘capo’). Ciò detto, non bisogna perdere l’orizzonte di senso e le logiche cui dovrebbe – deve! – ispirarsi una democrazia costituzionale: il “governo di salvezza” deve essere considerato come rigorosamente eccezionale e temporaneo, funzionale a condurre quanto prima ad un ritorno alla fisiologia democratica.
Il Parlamento, per di più, è l’unico organo i cui lavori sono pienamente pubblici e trasparenti: le decisioni vengono assunte tramite un aperto dibattito, certamente più adeguato a coinvolgere l’opinione pubblica e a renderla consapevole delle ragioni alla base delle scelte rispetto a un processo decisionale condotto nel chiuso delle stanze di Palazzo Chigi. Se il Parlamento è al centro delle decisioni politiche, i cittadini possono vigilare in modo molto più attivo e incisivo sull’esercizio della sovranità che, come afferma l’art. 1 della Costituzione, appartiene loro, il che non consente “deleghe in bianco” di potere. È chiaro che, affinché questo sistema funzioni, c’è bisogno di organizzazioni partitiche solide, funzionanti, e soprattutto democratiche, tramite le quali i cittadini possano effettivamente svolgere la propria primaria funzione, ossia quella di concorrere a determinare la politica nazionale (art. 49 cost.).
Proprio per queste sue caratteristiche, il Parlamento è il luogo in cui i rapporti tra politica e ‘tecnica’ possono svolgersi nel modo più equilibrato e proficuo possibile: la scienza può essere ascoltata dalla politica – il che è fondamentale – mantenendo un profilo autonomo e indipendente, senza cioè rischiare di essere strumentalizzata per finalità di parte, o pretendere, al contrario, di sostituirsi alla politica nelle decisioni; quest’ultima, d’altro canto, è costretta a basare le proprie decisioni su argomentazioni razionali e, laddove necessario, scientifiche, poiché la maggioranza afferma il proprio indirizzo sotto il vigile e costante occhio critico delle opposizioni. In altre parole, il Parlamento rappresenta la sede più idonea affinché tecnica e politica svolgano le funzioni che più si addicono loro: la prima, incaricata di fornire i propri pareri in modo schietto e del tutto indipendente, libera dal peso della responsabilità delle decisioni e della conseguente necessità di bilanciare e mediare tra interessi diversi e contrapposti; la seconda, affidataria dell’onere di decidere, in modo quanto più possibile razionale e meno esposto alle sirene dell’emotività e del consenso: il che è favorito dalla continua e pervasiva dialettica tra maggioranza e opposizioni, che induce a consolidare le argomentazioni. Insomma, nel Parlamento è possibile la sintesi più benefica tra politica e tecnica, vitale affinché la scienza non si faccia politica e allo stesso tempo le decisioni politiche, nell’operare quel bilanciamento tra interessi diversi che solo la politica può compiere, si fondino su solide argomentazioni razionali basate, laddove necessario,anchesulle evidenze scientifiche.
Negli ultimi decenni proprio le dinamiche di marginalizzazione della politica, ed in primis del Parlamento, hanno condotto a tutt’altro approccio, ed in particolare ad una commistione sempre più negativa tra politica e tecnica, in cui spesso quest’ultima è stata usata come giustificazione ‘oggettiva’ di scelte politiche quantomeno discutibili o di converso ha preteso di sostituirsi, in varie forme, al decisore politico.
“Se non ora, quando?”, recita un famoso motto caro a tante istanze di cui si sente l’urgenza. Ebbene, questo motto può attagliarsi molto bene anche alla tematica oggetto di queste brevi considerazioni: se non si ristabilisce una sana e ordinaria dialettica democratica in occasione dell’attuazione di un piano decisivo per il futuro del nostro paese – in particolare del sud e delle aree interne –, indispensabile per far fronte alla crisi sanitaria, economica, sociale, ambientale, quando lo si farà?