PER UNA EUROPA AUTONOMA IN UN NUOVO ORDINE MONDIALE

di Gianni PRINCIPE

Il tema di un esercito europeo è emerso con prepotenza negli ultimi tempi come conseguenza del dibattito all’interno della UE sull’aumento della spesa per armi in ambito NATO e sull’istituzione di un fondo per il sostegno all’Ucraina in guerra. In aggiunta, un’uscita del presidente francese Macron che ventilava un impegno militare del suo paese, sul terreno, ha sollevato questo nuovo tema per gli altri paesi europei, che si sono detti contrari in grande maggioranza, ma non in coro unanime.

L’argomento si direbbe, tutto sommato, una classica arma di distrazione di massa: L’Unione Europea è un’entità lontana dal darsi una forma statale unitaria, quanto meno federale, e sta piuttosto accentuando la sua natura sovranazionale, più che altro intergovernativa e burocratico-amministrativa, visti i ruolo assegnati all’assemblea elettiva e alla Commissione; è un’entità priva di una Costituzione, che si regge su un numero imponente di trattati e di direttive, con un bilancio comune risibile e, se non bastasse, priva di un Tesoro comune, di una moneta comune, di un debito comune e di un fisco comune, tanto da ospitare al suo interno paradisi fiscali e da ammettere una concorrenza spietata tra sistemi fiscali nazionali, al ribasso nei confronti dei grandi monopoli detentori delle quote più rilevanti della ricchezza mondiale. Un’entità così fatta non può neanche adombrare qualcosa come un esercito comune.

Detto questo, però, sarebbe un errore fermarsi su questa pura constatazione. L’arma di distrazione di massa può infatti essere colta come occasione per affrontare, a livello di massa e non solo tra addetti ai lavori e intellighenzia, la questione cruciale che oggi affligge l’Europa e che consiste nella sua progressiva irrilevanza nel quadro geopolitico. Una questione che ha raggiunto il suo picco di gravità ora che, sottomessa alla posizione dominante della potenza leader dell’Occidente capitalistico, è chiamata a farsi carico degli oneri economici dell’impegno militare dal dominus, il cui interesse strategico preminente è contrastare la potenza rivale, la Cina.

L’Italia ha sofferto più degli altri paesi dell’Europa Occidentale, per la difficoltà di ricucire le fratture prodotte dal fascismo, il peso di questa sudditanza: al suo interno e nei suoi rapporti con il fronte atlantico in cui si è trovata inserita, volente o nolente, a causa della sconfitta. Al di là del giudizio sull’adesione alla NATO, è un dato di fatto che non era praticabile alcuna scelta alternativa e che l’adesione ha comportato una limitazione di sovranità, sul cui peso vi sono state valutazioni diverse in sede storiografica, senza che potesse essere negata.

Ciò non toglie che l’intera Europa Occidentale (continentale) abbia pagato un prezzo. La Germania, soprattutto, divisa in quattro zone di occupazione e ricomposta (dopo aver ceduto territori) solo a quasi mezzo secolo di distanza. Anche la Francia, sia pure in minor misura, lasciata fuori dalle Conferenze di Yalta e di Potsdam nel 1945. Non a caso parliamo dei tre maggiori paesi fondatori dell’Unione Europea, cui la Spagna si è potuta aggiungere solo dopo la fine del franchismo.

Possiamo dire, ora, che i paesi che hanno dato vita all’UE hanno fatto i conti fino in fondo con il cambiamento dell’assetto mondiale che le due Guerre Mondiali hanno comportato? Che i popoli ne siano del tutto consapevoli, ovvero, che sia divenuta acquisizione comune, ben incardinata nella loro memoria collettiva? Oggi non sono più sonnambuli che non hanno piena coscienza di ciò che fanno in veste di protagonisti, né antagonisti accaniti in una guerra che ha coinvolto il mondo intero attorno a loro. Oggi sono comprimari in un ruolo secondario: i protagonisti sono a Oriente e a Occidente, l’Europa sta in mezzo ma non sta più al centro.

Eppure, l’Europa era stata la culla della nuova cultura universalistica: dell’uguaglianza e della fraternità come condizioni per una libertà, intesa come emancipazione dal dominio di altri simili e dallo stato di necessità, per poter perseguire la “felicità” e il “pieno sviluppo della personalità”. Ciò nonostante, non era al tavolo in cui si immaginava un assetto del mondo costruito su quegli ideali. Ed era spettatrice passiva quando i leader di USA e UK hanno preso una strada opposta rispetto a quella immaginata – che era stata faticosamente imboccata nei trenta anni “gloriosi” dell’”età dell’oro”, tra la fine della guerra e i Settanta – e hanno imposto quel cambiamento facendone il paradigma economico e sociale per il fronte atlantico, per misurarsi con l’intero mondo globalizzato.

L’Europa è dunque a un bivio. I pannicelli caldi suggeriti dalle migliori menti (italiane) del vetero-liberalismo non sfiorano neppure il cuore del problema. Finché ci si muove all’interno dell’assetto intergovernativo burocratico, non c’è ricetta, né indirizzo economico che tenga e l’Europa delle patrie sarà destinata a trovarsi, rispetto al mondo, nella condizione in cui è stata l’Italia divisa in staterelli quando nascevano gli stati nazionali in Europa. Terra di conquista e di contesa geopolitica.

Il richiamo alla Patria, che tenta anche settori della sinistra, non è senza fondamento se significa riscoprire in tutta la sua importanza il peso delle radici storico-culturali di un popolo e della loro memoria. Fa da cemento per una nazione e dà all’ethnos il valore positivo che merita se non si cede alle tentazioni razziste e scioviniste. L’Italia avrebbe peraltro molto da vantare, in queste circostanze, potendo contribuire con la sua tradizione culturale a una ridefinizione in termini attuali dei valori della democrazia, della solidarietà, della libertà dal bisogno e dallo sfruttamento.

Ma l’idea di un ritorno alla dimensione degli stati nazionali sarebbe solo una condanna alla sudditanza e toglierebbe all’Europa l’unica arma di cui può disporre nel mondo globalizzato: l’autonomia che, in un orizzonte multipolare, potrebbe permetterle di esercitare il ruolo di architetto e di artefice di un nuovo ordine mondiale, più solido e con un assetto più coerente e efficace di quello di cui l’ONU è stato un embrione: mal cresciuto, per i troppi limiti della sua costituzione. E l’autonomia, per tornare al tema iniziale, non potrebbe che comportare anche una corrispondente capacità autonoma di difesa della propria indipendenza. Autonoma, inevitabilmente, da ogni altra alleanza militare, che andrebbe chiaramente in senso contrario alla missione che sarebbe chiamata a assolvere.

Appare del tutto chiaro che dalla cultura politica del conservatorismo europeo, che ha ormai pervaso anche la sinistra “moderata”, dei reduci dal collasso del comunismo sovietico che ha trascinato con sé anche la socialdemocrazia, non potrà nascere un disegno politico di questa portata, non essendo oltre tutto all’orizzonte un personale politico adeguato a un simile compito. La sinistra del XXI secolo è un cantiere in costruzione ma dai suoi fermenti, se anche le generazioni più giovani sapranno fornire il contributo che ci si deve aspettare, potrebbero emergere le condizioni necessarie: il tempo stringe, le prossime elezioni europee non sembrano destinate a segnare un sostanziale passo in avanti e si deve sperare che non certifichino un collasso che sarebbe esiziale. L’orrore del vuoto, sull’orlo del baratro, dovrebbe indurre a un’accelerazione dell’impegno per un’inversione radicale di tendenza.

Autore

  • Giovanni Principe, detto Gianni, dirigente storico della Cgil, laureato in Architettura ed Economia del territorio, opinionista ed autore di varie pubblicazioni. Da 40 anni al lavoro, su economia e politiche del lavoro (Ispe, Cgil, Isam, Isae, Isfol). Impegnato per cambiare le cose; è il modo giusto di vederle.

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