Gli italiani guadagnano il 12 % in meno della media delle altre nazioni Ue, la fascia delle persone dai 18 ai 34 anni è sempre più esposta agli indici di deprivazione.
Anche i dati relativi al lavoro sono i più bassi d’Europa. Inoltre registriamo oltre ai salari molto più bassi della media europea, giovani adulti più poveri rispetto alle altre fasce di età, una popolazione che invecchia costantemente e inesorabilmente mentre lo Stato spende molto poco per sostenere le famiglie e la natalità, esattamente il contrario di quanto avviene in tutte le altre nazioni europee. Il rapporto annuale Istat è sempre più il consueto appuntamento con la strutturale emergenza sociale.
Un ossimoro apparente: perché la carrellata di numeri allarmanti non spaventa ne preoccupa neanche l’attuale governo, il quale – al contrario – prosegue dritto con misure che, se guardate sembrano destinate a un altro Paese. Il Senato della Repubblica non si è occupato della gravità della situazione sociale italiana perché è stato molto impegnato in altre questioni, infatti ha deciso di ripristinare i vitalizi dopo l’abolizione, infatti ha fermato il taglio imposto nel 2018. Una misura che prevedeva che l’assegno fosse calcolato con il metodo contributivo. La maggioranza dei senatori ripristina i privilegi ingiustificati per i parlamentari italiani. Via libera del consiglio di garanzia del Senato a una delibera che prevede il ripristino dei vitalizi tagliati per gli ex senatori. Si tratta di quelli relativi a prima del 2012 quando, adeguandosi alla riforma pensionistica, è stato deciso che venisse applicato anche ai parlamentari il sistema contributivo (quanto effettivamente versato) e non più retributivo (lo stipendio da parlamentare).
Tornano i maxi assegni per 851 ex senatori e 444 familiari di senatori deceduti. L’importo tornerà dunque ad agganciarsi allo stipendio anziché ai contributi versati. Mentre la questione salariale per milioni di italiani è di fondamentale importanza. Ma le retribuzioni italiane, per la stragrande maggioranza, sono sempre più basse, non garantiscono una vita dignitosa a milioni di persone. Tra il 2007 e il 2020 gli stipendi netti dei dipendenti italiani sono crollati del 10% mentre il cuneo fiscale (la differenza tra il costo sostenuto dal datore di lavoro e la retribuzione netta del lavoratore) è sì sceso ma resta ancora superiore al 45%, dati riferiti al 2020. A certificare questo triste trend negativo è l’indagine «Reddito e condizioni di vita» dell’Istat, che misura il carico fiscale e contributivo sulle buste paga. A peggiorare la situazione generale è anche l’inflazione alle stelle, che erode il potere d’acquisto di salari e pensioni. Secondo Odm Consulting la perdita di potere d’acquisto netta è di duemila euro l’anno: circa 1.500 nel 2022 e 500 nel 2023.
L’Istat segnala poi che tra il 2007 e il 2020 i contributi sociali dei datori sono diminuiti del 4%, anche per l’introduzione di misure di decontribuzione, mentre i contributi dei lavoratori sono rimasti sostanzialmente invariati e le imposte sul lavoro dipendente sono aumentate in media del 2%. Per quanto riguarda il cuneo fiscale e contributivo nel 2020 risulta in media pari a 14.600 euro e sebbene si riduca del 5,1% rispetto al 2019 continua a restare elevato superando il 45% del costo del lavoro. A livello territoriale, il costo del lavoro è mediamente più alto al Nord, dove i redditi sono più elevati, rispetto al resto del paese. Secondo l’Istat ne deriva che la quota di retribuzione netta del lavoratore raggiunge il valore minimo, 53,3%, nel Nord-ovest.
Le retribuzioni dei lavoratori italiani sono inferiori alla media europea di 3.700 euro all’anno. La differenza diventa di 8.000 euro se il confronto è solo con i salari tedeschi. Le paghe lorde ammontano a circa 27mila euro e la differenza con l’Europa, come accennato, è del 12%, quella con la Germania arriva al 23%. La significativa differenza si vede non solo guardando la situazione attuale, ma osservando la crescita degli ultimi anni: tra il 2013 e il 2022, le nostre buste paga sono salite solo del 12%, circa la metà della media europea. Questo vuol dire che in quel periodo il potere d’acquisto delle nostre famiglie, considerando l’inflazione, è sceso del 2%. In questo contesto, dunque, si colloca l’atteggiamento del governo di chiusura netta a ogni ipotesi di salario minimo, a partire da quella presentata in questi giorni da tutti i partiti di opposizione (naturalmente Italia Viva esclusa). Da anni gli stipendi bassi, poi, contribuiscono a diffondere la povertà, specialmente nella giovane generazione che più di tutte fa i conti con il precariato. Secondo il rapporto, ben il 47,7% della popolazione tra i 18 e i 34 anni fa i conti con almeno un fattore di deprivazione materiale. Si tratta di un indicatore che misura il benessere e che conta sei aree: istruzione e lavoro, coesione sociale, salute, benessere soggettivo, territorio. In pratica, quasi la metà dei giovani maggiorenni presenta una carenza in almeno una di queste; addirittura 1,6 milioni di persone, invece, presentano deprivazioni in due o più domini. Il rapporto, quindi, segnala quella fascia di età come la più vulnerabile e vale la pena ricordare che proprio quella fascia sarà interessata maggiormente dal taglio del Reddito di cittadinanza; da ora in poi la nuova misura potrà andare solo a chi ha minori, disabili o anziani nel nucleo. I più colpiti saranno i single e le giovani coppie senza figli, che pure sono le categorie enormemente penalizzate dal mercato del lavoro. Tra l’altro, la povertà si conferma un fenomeno legato alla provenienza sociale infatti essa è diventata un dato di fatto ereditario.
La trasmissione intergenerazionale della povertà, la “trappola”, è più intensa che nella maggior parte dell’Ue: quasi un terzo degli adulti tra 25 e 49 anni a rischio povertà inesorabilmente proviene da famiglie povere. Evidenza che stronca l’assurda “narrazione della meritocrazia” del disagio economico come colpa delle persone. Il record del tasso di occupazione dipende anche da fattori demografici, cioè dal fatto che la popolazione in età lavorativa diminuisce. Il declino è proseguito anche nell’anno appena passato, quando la popolazione italiana generale è diminuita di ben 179.416 unità. Per la prima volta le nascite sono andate sotto le 400mila, fermandosi a 393mila, mentre le morti sono state 713mila. A inizio 2020 l’età media era di 45,7 anni, mentre ora siamo a 46,4. Siamo, teniamolo sempre presente, tra l’altro uno dei Paesi che meno investe per la famiglia e i minori, l’Italia spende l’1,2% del Pil, contro il 2,5% della Francia e il 3,7% della Germania. Aggiungiamo che anche i dati ambientali sono preoccupanti. La disponibilità idrica nazionale ha raggiunto il suo minimo storico nel 2022, quasi il 50% in meno rispetto al periodo tra il 1991 e il 2020. E c’è il problema della povertà energetica: il 17,6% delle famiglie a rischio povertà non riesce a riscaldare adeguatamente l’abitazione e il 10,1% dichiara arretrati nel pagamento delle bollette. Secondo l’Istat il 20,1% della popolazione nel 2022 è a rischio povertà. Bisogna tenere presente che negli anni in cui è stata fatta la rilevazione Istat era in vigore uno strumento di contrasto alla povertà: il reddito di cittadinanza. Pur non avendo migliorato la situazione ha comunque evitato che un milione di persone in più si trovasse in condizioni di povertà.
Cosa succederà nei prossimi mesi con la nuova misura, l’Assegno d’inclusione, che di fatto dimezza la platea dei beneficiari? l’Istat nel report “Condizioni di vita e reddito delle famiglie – anni 2021/2022” certifica che nel 2022 poco meno di un quarto della popolazione (24,4%) è a rischio di povertà o esclusione sociale, quasi come nel 2021 (25,2%). Ma va sottolineato che le rilevazioni sono state effettuate prima dell’aumento dell’inflazione. «Certamente questi non sono dati da leggere con sollievo», spiega Antonio Russo, portavoce dell’Alleanza contro la povertà. «Non dobbiamo farci trarre in inganno dal fatto che il dato sulla percentuale di persone a rischio povertà sia rimasto stabile tra il 2021 e il 2022: in Italia la popolazione è povera, parliamo – stando ai dati – di quasi un individuo su quattro a rischio povertà». Inoltre un altro dato che riporta l’analisi Istat ci dice che nel 2021 il reddito totale delle famiglie più abbienti è 5,6 volte quello delle famiglie più povere (rapporto sostanzialmente stabile rispetto al 2020). Questo valore, ovviamente, sarebbe stato molto più alto (6,4) in assenza di interventi di sostegno alle famiglie. «Se è vero che il reddito delle famiglie è tornato a crescere», spiega Russo, «dobbiamo però interrogarci su una questione: “quali misure e strumenti di contrasto alla povertà erano in vigore durante gli anni della rilevazione? A contribuire nel sostenere le famiglie c’era il reddito di cittadinanza e da marzo 2022 anche l’assegno unico. Ricordiamo anche che senza il reddito di cittadinanza, e lo ha certificato l’Istat, avremmo avuto un milione di poveri in più». Il reddito di cittadinanza sarà sostituito da due misure, rivolte a diverse categorie di beneficiari: da un lato l’Assegno d’inclusione (Adi) per i “non occupabili”, dall’altro il Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl) per gli occupabili. La sostituzione del Reddito di Cittadinanza con l’Assegno all’Inclusione, una misura categoriale rivolta esclusivamente alle famiglie con minori, anziani o disabili, e il Supporto per la formazione e il lavoro, per le altre famiglie, costituisce una profonda e preoccupante novità rispetto al criterio di universalità selettiva che aveva caratterizzato le due precedenti misure nazionali di contrasto alla povertà, prima il Rei e poi il Rdc. Si rischia di ricreare un forte elemento di debolezza nel nostro sistema di welfare. Viene infatti abbandonato il principio del reddito minimo (oggi vigente nella maggior parte dei paesi europei), il quale prevede che qualsiasi nucleo familiare che si trovi in condizione di povertà debba ricevere un sostegno minimo al reddito. La conseguente riduzione della platea degli aventi diritto che ne risulterebbe è infatti rilevante: si potrebbe determinare, secondo le stime più accreditate, addirittura un sostanziale dimezzamento degli aventi diritto.
Il rischio di povertà resta più alto nel Mezzogiorno, che rimane l’area del Paese con la percentuale più alta di individui a rischio (40,6%, come nel 2021). Anche se a livello regionale l’Istat registra un miglioramento per la Campania e la Sicilia, con la riduzione del rischio di povertà o esclusione sociale, trainato da una sensibile riduzione di tutti e tre gli indicatori (rischio di povertà, grave deprivazione e bassa intensità di lavoro). Tuttavia, il rischio di povertà o esclusione sociale aumenta in Puglia, Sardegna e Calabria; in queste ultime due regioni peggiorano i tre indicatori. Il governo intanto ha varato la nuova legge: il decreto Lavoro che prevede più precarietà, più’ possibilità di rinnovare senza causale contratti a termine, sussidi dello Stato solo alle imprese. Il Governo dopo l’Irap e la proposta della flat tax, vuole la riduzione dell’Ires. La concentrazione di capitali, di ricchezza, non è data solo dai monopoli, dagli oligopoli, dalle multinazionali, dall’estrazione di valore nella produzione in un contesto di deflazione salariale.
Anche l’attuale governo si fa sostenitore delle disuguaglianze con sussidi solo alle imprese, riduzione di imposte, tolleranza ad elusione ed evasione, con la soppressione delle funzioni pubbliche previste dalla Costituzione a favore di settori privatistici.
La situazione della sanità sembra emblematica con l’esplosione dei bilanci in rosso delle Regioni e il taglio della spesa pubblica rischiano di essere sempre più marcati alla luce delle scelte fiscali del Governo Meloni. Il tutto mentre la spesa sanitaria pubblica è prevista in riduzione dal 6,7% del Pil nel 2023 al 6,3 nel 2024 fino ad arrivare al 6,2 nel 2025. Un recente studio di Mediobanca mette in luce, con estrema chiarezza, il recente rafforzamento della sanità privata. Nel 2021, 24 operatori sanitari privati hanno realizzato in Italia un fatturato di 9,2 miliardi di euro, in forte, e continua, crescita rispetto al passato. Una simile crescita è stata, in buona misura, trascinata dalla diagnostica. Lo stesso rapporto indica con didascalica evidenza che tale crescita dipende moltissimo dalla decisa frenata della spesa sanitaria pubblica i cui numeri sono, davvero impietosi, secondo quanto emerge dal recente Def. Peraltro, occorre ricordare che si tratta di una spesa più bassa di quella della Germania, dove risulta pari al 10,9% del Pil, della Francia, dove è pari al 10,3, e della Spagna dove supera di poco il 7,8%.
È evidente che si va verso una sanità non più universalistica e pubblica. A questo aggiungiamoci che dei dati contenuti nelle Tabelle dei bilanci previsionali del Ministero della Difesa e degli altri dicasteri che contribuiscono alla spesa militare italiana (ex Mise e Mef) allegate alla Legge di Bilancio 2023 inviata dal Governo al Parlamento: il nuovo incremento complessivo è di oltre 800 milioni di euro.
1 Commento
Il difetto storico della sinistra è che non recepisce che le divisioni portano alle vittorie delle destre forcaiole, arrogante, autoritarie, razziste e poche incline alle politiche di tutela e difesa delle classi sociali deboli. Solo nell’ unità e partecipazione si potrà trovare la forza per sconfiggere tali partiti