Negli ultimi tre decenni, l’1% della popolazione più ricca nel mondo ha accumulato il doppio delle
ricchezze del restante 99% del resto degli abitanti del nostro pianeta. Per capire come, facciamo un
semplice esempio: Elon Musk [1] ha pagato per anni una aliquota fiscale [2] effettiva del 3% circa,
mentre una piccola commerciante di riso in Uganda
pagava il 40%. Lei vive con 80 dollari al mese e Musk con 180 miliardi in dollari statunitensi di patrimonio stimato. Una possibile soluzione chiara per sanare questa disuguaglianza: dobbiamo tassare i ricchi. Persino il presidente degli Stati Uniti Biden ha da pochi mesi proposto una tassa per i miliardari del suo Paese. Un’adeguata pressione dell’opinione pubblica mondiale potrebbe spingerlo a promuovere l’idea anche agli altri leader mondiali.
Con un’imposta al massimo fino al 5% sul patrimonio degli ultra-ricchi si potrebbe riscuotere abbastanza denaro per far uscire dalla povertà 2 miliardi di persone. Dal 2021 abbiamo assistito ad una profonda conversione persino del Fondo Monetario Internazione [3], che era impensabile solo alcuni mesi prima, infatti Gita Gopinath, capo economista e direttore del dipartimento di ricerca del FMI, parla di una ripresa che sia ecosostenibile e capace di «arrestare la crescente disuguaglianza». E, mentre indica come prioritari gli «investimenti in infrastrutture digitali per aumentare la capacità produttiva e rafforzare l’assistenza sociale», sottolinea che risulterà «essenziale» migliorare la capacità e progressività fiscale. Cioè serviranno maggiori prelievi fiscali, ma meglio distribuiti tra i cittadini, facendo pagare effettivamente le
tasse soprattutto a chi è veramente ricco.
Un messaggio chiaro, ribadito dal direttore generale dell’FMI, Kristalina Georgieva: «Una tassazione progressiva è un elemento chiave di una politica fiscale efficace». Ma è soprattutto Vitor Gaspar, ex ministro delle finanze portoghese, ad aver parlato più chiaro e più forte. Al Financial Times ha, infatti, dichiarato che «i lavoratori ad alto reddito e le aziende che hanno prosperato nella crisi del coronavirus dovrebbero pagare tasse aggiuntive per mostrare solidarietà a coloro che sono stati colpiti più duramente dalla pandemia. Una tassa temporanea aiuterebbe a ridurre le disuguaglianze sociali che sono state
esacerbate dalla crisi economica e sanitaria».
Basti pensare che la Wealth Tax Commission britannica ha valutato lo scorso anno che una tassa patrimoniale una tantum dell’1% solo sui patrimoni sopra il milione di sterline frutterebbe 260 miliardi di sterline (oltre 300 miliardi di euro) in 5 anni. E una misura similare, o comunque ispirata al principio solidaristico che chi più ha più deve contribuire, nel contesto attuale, sarebbe utile su più fronti. Poiché, oltre che offrire risorse alle casse pubbliche in crisi, rassicurerebbe sul fatto che la lotta contro il Covid-19 e le grandi disuguaglianze sarebbe uno sforzo collettivo solidaristico dell’intera società mondiale, in collaborazione con le comunità locali. Il grande valore simbolico e finanziario di una simile tassa di scopo favorirebbe così una coesione sociale oggi quanto mai fondamentale, a prescindere da tutto. In gran parte delle economie più sviluppate del mondo la disuguaglianza di reddito è, come sappiamo, aumentata sensibilmente a partire dalla fine dagli anni settanta. Malgrado questo nella seconda metà del ventesimo secolo la crescita economica è stata costante ed è ripartita con slancio dopo la crisi finanziaria del 2008-2009
Eppure la grande ricchezza generata non è, evidentemente, arrivata a tutti. Ci sono stati grandi vincitori, un piccolo numero di persone, ma anche grandi sconfitti, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale.
Secondo Angus Deaton, premio Nobel per l’economia e tra gli autori di uno studio quinquennale sulla disuguaglianza nel Regno Unito per conto dell’Institute for fiscal studies (Ifs), «la sensazione che il capitalismo contemporaneo non porti benefici a tutti è molto diffusa». Le cause sono tante e riguardano principalmente le politiche fiscali, la tecnologia, la globalizzazione, la deregolamentazione, l’istruzione, il forte indebolimento dei sindacati e le assurde politiche di austerità. Certo in un sistema basato sull’economia di mercato è inevitabile un certo grado di disuguaglianza, ma le differenze estreme possono avere conseguenze gravi e certamente, inutili e ingiustificate. Tra le più visibili degli ultimi anni c’è la polarizzazione della politica e la forte ascesa del populismo, in molti paesi democratici nel mondo.
Nel Regno Unito, in molti hanno attribuito all’aumento della disuguaglianza la Brexit e negli Stati Uniti d’America l’elezione di Donald Trump, così come l’affermazione di nuovi movimenti politici, non propriamente democratici, in Europa. Ted Howard, cofondatore dell’istituto di ricerca Democrazia collaborativa, ritiene che solo tre individui, Bill Gates, Jeff Bezos e Warren Buffett, posseggano una quantità di ricchezza superiore ai 160 milioni di statunitensi più poveri. Howard ritiene che «Il problema non è legato solo alla giustizia economica, ma anche alla democrazia. È possibile mantenere una cultura e
uno stato democratici quando la distribuzione della ricchezza non è affatto democratica? Si tratta di una minaccia molto seria».
Oltre alle divisioni politiche, l’aumento della disuguaglianza può produrre anche risultati economici negativi. Gli economisti di destra sostengono che la redistribuzione del reddito sia controproducente, ma il Fondo monetario internazionale sottolinea in modo inconfutabile che le divisioni sociali possono destabilizzare la crescita e creare le condizioni per un improvviso rallentamento. Un’economia rischia di soffocare se milioni di persone non possono contribuirvi. Dobbiamo provare ad invertire la tendenza sappiamo che l’uguaglianza completa potrebbe essere un obiettivo irraggiungibile, e inoltre alcuni economisti pensano che una società del tutto equa potrebbe essere perfino indesiderabile perché cancellerebbe ogni diversità e dinamismo. Ma dobbiamo chiederci: la disuguaglianza ha superato i limiti tollerabili? Come possiamo invertire la tendenza? Come possiamo evitare i fenomeni più estremi? Il ragionamento che ha prevalso negli ultimi quarant’anni è che la crescita economica rappresenta l’antidoto più efficace contro la disuguaglianza. Se la torta è più grande, tutti avranno una fetta più grande. A tal proposito il politico laburista Peter Mandelson è citato spesso per una frase pronunciata negli anni novanta, quando ha dichiarato di «non essere contrario all’idea che alcune persone diventino scandalosamente ricche, purché paghino le tasse». La scelta del metodo per ridurre la disuguaglianza dipende molto dall’opinione che si ha del lavoro e del suo valore. Il lavoro duro merita un guadagno maggiore? I banchieri e gli imprenditori sono più importanti degli infermieri e dei medici? Gli incentivi finanziari sono lo strumento migliore per massimizzare il potenziale delle persone? Finora le armi
principali nella lotta alla disuguaglianza sono state le tasse e la spesa pubblica.
La tassazione progressiva e i trasferimenti di ricchezza sono importanti, ma non sono l’unico modo per combattere le diversità di reddito e di ricchezza. Ma alcuni dati sembrano dimostrare l’efficacia della politica fiscale. Nel Regno Unito, senza tenere conto della redistribuzione attraverso le tasse e i servizi, il 20 per cento più ricco guadagna dodici volte di più rispetto al 20 per cento più povero. Una volta inseriti nell’equazione i trasferimenti di ricchezza e la pressione fiscale, però, il divario risulta più che dimezzato.
Alcuni economisti e politici hanno sposato la causa del reddito di base per garantire una rete di sicurezza e scongiurare la povertà, mentre altri ritengono preferibile una spesa mirata in favore dei più bisognosi. C’è anche chi vorrebbe concentrarsi su un aumento della spesa per l’istruzione e i servizi. L’economista francese Thomas Piketty [4], esperto mondiale nel campo della disuguaglianza, ha proposto una tassa globale sulla ricchezza, applicata a livello mondiale con la supervisione di organismi internazionali.
Mentre l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha proposto di aumentare le tasse di successione per evitare l’estrema concentrazione della ricchezza. Ma questi tagli delle tasse sono temi politici molto delicati e spesso non si riescono ad applicare a causa di stratagemmi complessi che sfruttano un mondo sempre più globalizzato, dove il capitale può superare i confini statali eludere il pagamento delle tasse e raggiungere i paradisi fiscali. Il solo parlare di tassa sulla ricchezza, tra l’altro, fa scattare i consueti allarmi sulla possibilità che un’economia possa perdere gli investimenti dei ricchi
spingendoli a lasciare il paese.
Un’alternativa, sostenuta anche da Ed Miliband [5], è l’idea della “predistribuzione”, secondo cui un aumento della spesa per la sanità e l’istruzione certamente può ridurre il persistere della disuguaglianza di reddito tra una generazione e l’altra, oltre ad alimentare a lungo termine i tassi di produttività, occupazione, distribuzione equa della ricchezza e reddito. Alcuni economisti hanno suggerito che dare più potere democratico alle persone potrebbe scongiurare un aumento della disuguaglianza. Ma come sembra dalle reali esperienze Scandinave [6] è proprio tassando maggiormente le grandi aziende multinazionali e i super-ricchi che i governi vedrebbero realmente aumentare le loro risorse. Infatti, se le multinazionali
dell’energia hanno registrato nel periodo 2022-2023, profitti record, la Shell ha registrato più di 20 miliardi di dollari in un semestre, Total 29 miliardi, BP 16 miliardi, cifre mai viste prima, lo devono solo alla situazione politica, e in particolare alla guerra in Ucraina, e non a un aumento della loro produttività o dei loro investimenti.
Le tasse sui super-profitti devono essere introdotte ovunque nel mondo, come raccomandato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres, e molti Paesi, soprattutto in Europa, hanno già iniziato a farlo.
Anche le aziende farmaceutiche hanno visto i loro profitti aumentare a dismisura grazie alla pandemia, anche se i vaccini sono stati sviluppati soprattutto grazie a sussidi pubblici. Anche il settore alimentare, dove gli oligopoli sono molto diffusi, ha tratto grandi vantaggi dalla situazione. È proprio speculando sui mercati di prodotti alimentari di base come il grano che un altro settore, quello finanziario, sta realizzando profitti senza precedenti. E non parliamo delle aziende digitali, grandi vincitrici della pandemia e campioni di strategie di elusione fiscale. Le multinazionali non sono entità fantasma. Quando i loro profitti aumentano, sono i loro principali azionisti a beneficiarne, anche se in modo discreto. Prendiamo
l’esempio di Cargill che, insieme ad altre tre aziende, controlla il 70% del mercato alimentare globale: l’azienda ha realizzato più di cinque miliardi di dollari di profitti lo scorso anno, il più alto nei suoi 156 anni di storia e si prevede che quest’anno i profitti saranno ancora ancora maggiori. Nei primi due anni della pandemia sono emersi 573 nuovi miliardari, ovvero uno ogni 30 ore, secondo i calcoli di Oxfam. La ricchezza totale dei miliardari equivale oggi al 13,9% del Prodotto interno lordo globale, tre volte di più rispetto al 2000, e i 10 uomini più ricchi del mondo possiedono più ricchezza del 40% più povero
dell’umanità, ovvero 3,1 miliardi di persone.
In Italia la situazione è veramente grave e preoccupante. Infatti il sistema fiscale italiano, da moltissimi anni, versa in una crisi gravissima che ne mina il corretto funzionamento infatti non risponde più ad una tassazione progressiva, come previsto dal dettato Costituzionale, tanto da mettere in discussione e la stessa legittimazione democratica. L’argomento tasse è particolarmente grave dato che in Italia, come negli altri Paesi dell’Europa, una elevata pressione fiscale è necessaria al finanziamento dei sistemi di welfare moderni democratici e inclusivi. Una giusta e corretta distribuzione del carico fiscale è quindi un elemento fondamentale del contratto sociale e della convivenza civile in cui i cittadini dovrebbero
riconoscersi.
La massiccia e ingiustificata evasione ed elusione fiscale di intere categorie di contribuenti che nascondono al fisco parte importante della loro base imponibile proveniente maggiormente da redditi di lavoro autonomo e da impresa individuale. Ancor di più le rendite finanziare sono molto avvantaggiate. Agli stessi contribuenti è poi riservata una imposta sostitutiva, con determinazione forfettaria dell’imponibile e aliquota piatta, molto favorevole cui si è aggiunta, per chi non aderisce al regime forfettario, l’aliquota piatta sugli incrementi di reddito. Il trattamento agevolato per lavoratori autonomi e
professionisti si traduce in una serie di distorsioni che aggravano la scarsa produttività del settore dei servizi, questo si sta rivelando come uno dei limiti principali dell’economia italiana.
La frammentazione del sistema di imposizione per cui non solo le diverse tipologie di reddito sono trattate con ingiustificata differenza, ma esistono differenziazioni anche all’interno di tali categorie, con la grave conseguenza che, pure a parità di reddito, i contribuenti subiscono prelievi molto diversi. I regimi cedolari e sostitutivi, molto diffusi, sottraggono una parte rilevante dei redditi alle addizionali comunali e regionali all’Irpef, e quindi al dovere di contribuire al finanziamento dei servizi pubblici locali. Il trattamento difforme dei diversi redditi di capitale, il cui onere varia da 0 al 26%, influisce negativamente su una corretta allocazione del risparmio, e quindi sugli investimenti. La struttura delle aliquote effettive dell’Irpef, caratterizzata dall’esistenza di aliquote implicite molto elevate, con effetti negativi sulla trasparenza delle imposte, che, a causa del sistematico svuotamento della sua base imponibile, riserva sempre più la progressività del prelievo ai soli, sempre più tassati, redditi di lavoro dipendente e pensione.
La pianificazione fiscale aggressiva dei gruppi multinazionali, che sostanzialmente eludono ed in maggior parte evadono le tasse. Il meccanismo di pagamento concentrato su due versamenti, a saldo e in acconto, che crea seri e inutili problemi di liquidità a molti contribuenti. L’arretratezza del catasto che penalizza fortemente i proprietari di immobili di minor pregio rispetto a quelli di maggior valore. L’eccessivo peso del prelievo fiscale e contributivo sul lavoro dipendente rispetto agli altri redditi e agli altri fattori di produzione. Il sistema di riscossione totalmente inefficiente che determina la concessione di costanti e periodiche cancellazioni di ruoli, di cui molti sarebbero perfettamente esigibili. Il ricorso continuo a
misure di definizione agevolata dei carichi tributari che coltiva la convinzione, o quasi certezza, dell’impunità per l’infedeltà fiscale. La mancanza di volontà politica per trovare le soluzioni legislative e amministrative necessarie a consentire il pieno utilizzo di tutte le banche dati sia per il contrasto preventivo dell’evasione sia per l’ efficientamento dell’attività di riscossione.
Diventa chiaro che tutti i principi fondamentali di un buon sistema fiscale sono in Italia inapplicati, con gravi conseguenze non solo di disparità di trattamento, ma anche di distorsioni economiche che determinano, inesorabilmente, una riduzione della crescita. Sono ormai numerosi gli studi che dimostrano come una significativa riduzione dell’evasione fiscale, conseguita a parità di pressione fiscale complessiva, determinerebbe un significativo aumento del Pil italiano, oltre che, in prospettiva, alla diminuzione del carico fiscale per tutti i cittadini. Non è possibile continuare ad ignorare questa ed altre
analoghe carenze, per altro molto evidenti. Ma purtroppo la delega fiscale recentemente approvata dal Governo [7] non affronta, anzi trascura ed ostacola la necessità di rendere il fisco la casa di tutti e non più un sistema di abusi, privilegi, ingiustizie e iniquità.
Il sistema di welfare, deve essere esteso in tutte le sue componenti anche ai lavoratori indipendenti, per motivi di equità e per evitare che le gravi lacune esistenti possano diventare un alibi per l’infedeltà fiscale. Figuriamoci se possiamo essere pronti a far pagare effettivamente le tasse ai super-ricchi.
1 Elon Reeve Musk, (Pretoria, 28 giugno 1971) multimilardario è un imprenditore sudafricano con cittadinanza canadese
naturalizzato statunitense. Ricopre i ruoli di fondatore, amministratore delegato e direttore tecnico della compagnia
aerospaziale SpaceX, fondatore di The Boring Company, cofondatore di Neuralink e OpenAI, amministratore delegato e
product architect della multinazionale automobilistica Tesla, proprietario e presidente di Twitter. Ha inoltre proposto un sistema
di trasporto superveloce conosciuto come Hyperloop, tuttora in fase di sviluppo.
2 Utiliziamo il termine “aliquota fiscale effettiva” riferendoci al termine coniato e ai calcoli effettuati da ProPublica (2021), e
indichiamo quanto viene pagato annualmente in tasse rispetto alla crescita della ricchezza stimata durante quell’anno.
L’aliquota fiscale effettiva di Elon Musk, basata sui dati trapelati dall’agenzia delle entrate statunitense, è stata in media del
3,27% tra il 2014 e il 2018.
3 A questo proposito: «Ci è voluto troppo tempo, ma sembra che il Fondo monetario internazionale (Fmi) abbia finalmente
capito alcune dure verità. La principale è che le economie in crescita riescono a ripagare più facilmente il debito pubblico. Il
consolidamento fiscale (cioè la riduzione del deficit, soprattutto attraverso il taglio della spesa), la strategia preferita dall’Fmi,
ostacola quindi gli sforzi per ridurre il rapporto tra debito e pil, perché frena la crescita economica. Non è certo una scoperta.
L’economista John Maynard Keynes l’aveva sottolineato quasi un secolo fa e da allora molti l’hanno ribadito. Di certo lo
sapevano i negoziatori dell’accordo di Londra del 1953, che ridusse il peso del debito della Germania Ovest e creò le
condizioni per il boom economico del dopoguerra … Per decenni il Fondo ha dato per scontato che tagliare la spesa pubblica
fosse l’unico modo per affrontare i problemi legati al debito. Oggi sembra riconoscere gli errori del passato», in J. Ghosh, Il
Fondo monetario fa i conti con la realtà, In “Internazionale”, n. 1509, del 28 aprile 2023, p. 38.
4 Si vedano in particolare T. Piketty, Capitale e ideologia, Milano, La nave di Teseo, 2020; Id., Una breve storia
dell’uguaglianza, , Milano, La nave di Teseo, 2021, dove Piketty «propone una storia comparativa delle disuguaglianze tra
classi sociali nelle società umane. O meglio una storia dell’uguaglianza, perché nel corso della storia si verifica un processo di
lungo termine finalizzato a una maggiore uguaglianza sociale, economica e politica. Non si tratta certo di una storia pacifica, e
ancor meno lineare. Le rivolte e le rivoluzioni, le lotte sociali e le crisi di qualsiasi natura svolgono un ruolo decisivo nella
storia dell’uguaglianza, che è anche scandita da fasi involutive e da derive identitarie. Resta il fatto che esiste, almeno dalla
fine del XVIII secolo, un processo storico orientato verso l’uguaglianza. Il mondo dei primi anni del XXI secolo, per quanto
ingiusto possa sembrare, è più egualitario di quello del 1950 o di quello del 1900, i quali, di per sé, erano già per molti aspetti
più egualitari di quelli del 1850 o del 1780. Affermare l’esistenza di una propensione verso l’uguaglianza non costituisce
affatto un motivo di soddisfazione. Si tratta, al contrario, di un invito a continuare la lotta su un fondamento storico solido.
Riflettendo sul modo in cui il processo verso l’uguaglianza si è effettivamente prodotto, è possibile trarre lezioni preziose per il
futuro, comprendere meglio sia le lotte e le mobilitazioni che lo hanno reso possibile, sia i dispositivi istituzionali e i sistemi
giuridici, sociali, fiscali, scolastici, elettorali che hanno consentito all’uguaglianza di diventare una realtà duratura. Purtroppo,
però, il processo di apprendimento collettivo delle istituzioni giuste perde la sua forza, spesso a causa dell’amnesia storica, del
nazionalismo intellettuale e dell’impermeabilità dei saperi. Per proseguire la marcia verso l’uguaglianza è dunque urgente
tornare a studiare la storia e oltrepassare i confini nazionali e disciplinari. Questo libro ottimista e di mobilitazione collettiva
tenta di procedere in tale direzione», p. IV di copertina.
5 Edward Samuel Miliband (Londra, 24 dicembre 1969) è un politico britannico, leader del Partito Laburista e dell’opposizione
di governo dal 2010 al 2015, nonché membro del Parlamento britannico.
6
In tutte le statistiche sulla distribuzione dei redditi i paesi Scandinavi registrano la minore disuguaglianza al mondo, e questo
con alte e progressive tassazioni sui redditi più alti. Sul tema si veda: C. Trigilia, La sifda delle disuguaglianze. Contro il
declino della sinistra, Bologna, Il Mulino, 2022.
7 «L’impostazione della riforma fiscale del Governo Meloni si allontana decisamente dal dettato costituzionale e pesa
maggiormente sulle fasce più deboli. Ricordiamo ai lettori il dettato dell’art. 53 della Costituzione della Repubblica Italiana
che recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è
informato a criteri di progressività”. Il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha fatto già sapere che intende modificare la
Costituzione nata dalla Resistenza. Anche la riforma fiscale si inserisce in un pericoloso disegno di restaurazione
antidemocratico. Ma la Sinistra ed il Partito Democratico, usciti sconfitti dall’assenteismo al voto, sono impegnati nelle beghe
interne di potere, si preoccupano delle pagliuzze e non vedono le travi che stanno crollando», in
https://www.avantionline.it/dal-governo-meloni-una-riforma-di-ingiustizia-fiscale/, visitato il 12 maggio 2023.