UNA RIFLESSIONE SU PARTECIPAZIONE POPOLARE, DEMOCRAZIA E ELEZIONI IN SARDEGNA

di Michele BLANCO

La reale applicazione delle regole democratiche nella prassi politica, sociale ed economica viene in realtà progressivamente svuotata, in primo luogo, dalla reale partecipazione democratica dei cittadini, che negli ultimi anni è, sempre più, diminuita. Nella gran parte dei paesi democratici.

La candidata del centrosinistra Alessandra Todde viene proclamata vincitrice delle elezioni regionali in Sardegna. Si è imposta con il 45,3%. Il candidato del centrodestra Paolo Truzzu si è fermato al 45,0%. Mentre scrivo, la Todde ha raccolto 314.611 voti contro 312.544 del suo avversario. Una differenza di appena 2.067 voti. (i dati non sono ancora definitivi).

Quando sarà stata scrutinata anche l’ultima sezione, alla fine lo scarto dei voti molto difficilmente sarà superiore a 3.000 voti. Le legge elettorale della regione Sardegna permette di essere eletti presidente della regione con un solo voto di differenza.

Ma questo è il dato meno interessante dal punto di vista della reale partecipazione popolare alle elezioni. Non è certo il primo caso di testa e testa. Più rilevante, certamente importantissimo, è il fatto che in Sardegna gli aventi diritto sono 1.447.753, dei quali solo il 52,3% ieri è andato a votare, pari a poco più di 757.000 votanti. La Todde, con i suoi 314.611 voti raccolti all’incirca finora, è stata votata dal 21,73% di tutti gli aventi diritto in Sardegna. Esageriamo e diciamo che alla fine sarà alla fine dello spoglio delle schede il 22%.

Resta, però, un dato oggettivo: raccogliendo il voto di poco più di un elettore su cinque, la Todde governerà come vuole da domani il 100% dei cittadini sardi. 

Questa sembra essere la democrazia al giorno d’oggi. Non conta convincere l’80% dei cittadini, ottenere nelle urne maggioranze bulgare, dare 20 o 30 punti di scarto all’avversario. Basta convincere un quinto della società e si riesce a governare. Il dato dimostra che le democrazie moderne non sono governate da maggioranze, ma da minoranze molto coese. Il 48% che ieri non ha votato non conta, non pesa, non decide assolutamente nulla. Questi elettori pagano non tanto il loro astensionismo, che, a seconda dei casi, può essere più che motivato, visto il brutto spettacolo della politica italiana degli ultimi decenni. Pagano piuttosto la loro rassegnazione, la loro mancanza di iniziativa, la loro incapacità di impegnarsi e proporre soluzioni alternative. In breve, paga l’incapacità di organizzarsi dei cittadini che non hanno fiducia nelle liste nei candidati che hanno deciso di non andare a votare. Chi si organizza vince, chi sta fermo perde. Secondo gli studiosi le democrazie occidentali tradizionali rischiano di perdere le caratteristiche della democrazia rappresentativa e costituzionale a favore di nuove forme di esercizio del potere, prevalentemente con caratteristiche elitarie e oligarchiche. Risulta chiaro che le occasioni di partecipazione effettiva e decisoria da parte dei cittadini vengono progressivamente ridotte a favore di altre forme decisionali. Acquistano sempre più un ruolo decisivo le burocrazie, i cosiddetti ‘tecnocrati’ – ne sono esempio i governi “tecnici”, in Italia a partire dal 1993 -, gli organi intergovernativi, le lobby d’interesse, le grandi imprese economiche e i media, in particolare le televisioni. Formalmente le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici.

Le appartenenze ideali in una realtà come quella odierna, sempre più frammentata, disorganica e molto fluida, risultano facilmente manipolabili dai media che offrono una lente d’ ingrandimento interpretativa concentrata su particolari legati ad esperienze e fenomeni contingenti su cui organizzare le correnti d’opinione in cui verrà diviso il pubblico. Un pubblico ormai di consumatori, non critico, che, in una realtà composta solo da immagini istantanee, fatica a star dietro a questo turbinio scomposto e vive solo rincorrendo le notizie, spesso manipolate, o l’immagine più “performativa” da esibire sui social network indipendentemente dalla qualità contenutistica, anzi rincorrendo le notizie più semplici, di più facile accesso, come i tg controllati dalle reti commerciali e quelli delle reti ”pubbliche”, controllate dal governo.

L’ attuale politica democratica italiana, non è solamente una liberaldemocrazia che presenta all’elettore/ consumatore scelte costruite e preconfezionate, pacchetti commerciali di soddisfazione di esigenze minimali; è anche superamento della discussione democratica nel senso autentico in favore di surrogati virtuali in cui tutto viene semplificato da slogan di facile e ripetitiva comprensione con un “opinionismo” invece di opinioni formate dal confronto reale. Decine di studi hanno provato a misurare l’effetto delle nuove modalità della comunicazione sul dibattito pubblico contemporaneo mettendo in evidenza e concentrandosi su tre fenomeni che hanno suscitato l’indignazione e i timori degli osservatori. Il primo fattore è l’inciviltà, ovvero l’irruzione dell’insulto, della rissa, della volgarità nella discussione politica. Il secondo è la disinformazione, con l’impressionante moltiplicazione delle fake news e lo slittamento verso la post-verità. Il terzo è la polarizzazione generata dalle bolle informative e dalle camere dell’eco, determinata sia dalla nostra propensione a dare credito a notizie che rafforzano le nostre convinzioni, sia dagli algoritmi “omofilici” dei social network e dei nuovi media “personalizzati” con la nascita di un’opinione pubblica guidata dai siti web e dagli inserzionisti.

È interessante notare che i soggetti che cavalcano questa deriva “operano in un mix tra motivazioni ideologiche, fini economici e dinamiche di intrattenimento, traendo soddisfazione dalla manipolazione del sistema ufficiale dei media”, contribuendo a “diffondere un clima di cinismo nel dibattito pubblico”. Si tratta di una vera e propria involuzione delle discussioni politiche che sono da sempre cruciali per valutare lo stato del dibattito pubblico, senza il quale “è impossibile immaginare una [vera e reale] democrazia”. Il dibattito pubblico sta vivendo una inquietante involuzione, anche a causa delle trasformazioni determinate dalla diffusione del web e delle piattaforme social, con il declino dei media tradizionali (giornali, radio, tv). Nell’epoca post-broadcast, siamo passati dalla “democrazia del pubblico” alla “democrazia dei pubblici”. 

La realtà politica rispecchia il continuo degrado della comunicazione, soprattutto dopo l’introduzione e il grande successo di spettatori della televisione privata controllata solo da interessi commerciali e concentrata nella proprietà di pochissime persone. Come esempi per questa concentrazione di potere il sociologo Crouch indica i magnati Rupert Murdoch e Silvio Berlusconi. Tra gli esempi prodromici più importanti di partiti con importanti caratteristiche postdemocratiche sono per Crouch, in Europa, il movimento di Pim Fortuyn nei Paesi Bassi e Forza Italia. Secondo l’analisi di Crouch, “Silvio Berlusconi ha organizzato l’ intera campagna elettorale del centrodestra alle elezioni politiche attorno al suo personaggio, disseminando ovunque sue gigantografie opportunamente ringiovanite, in forte contrasto con lo stile assai più partitocentrico che l’ Italia aveva adottato”.

Ma oggi bisogna considerare che se nel recente passato a minacciare la tenuta democratica era l’abbondanza comunicativa unidirezionale portata dalla televisione, oggi la stessa minaccia è stata individuata nel web e nelle piattaforme. La disponibilità di una comunicazione personalizzata e frammentata è stata vista come un fattore in grado di alterare le precondizioni della democrazia, poiché farebbe venire meno l’esposizione a contenuti informativi non preventivamente selezionati e quindi la condivisione di un certo numero di esperienze comuni tra i cittadini, utili a creare il senso di appartenenza alla stessa comunità.

Emergono, sempre più, ipotesi pessimistiche circa il nesso tra personalizzazione, frammentazione comunicativa e polarizzazione politica che caratterizzano la nostra democrazia attuale. Il vero rischio al quale l’intero mondo sembra andare incontro è quello di un “imbarbarimento” dei rapporti umani: la crisi della democrazia, la globalizzazione economica e finanziaria senza controlli, l’affermarsi dell’antipolitica e, più in generale, il nuovo, non del tutto chiaro nelle sue effettive applicazioni, assetto istituzionale imposto dalla società postindustriale e post-moderna con la sempre più acuta crisi dello stato sociale. Con il risultato di rendere i cittadini sardi, italiani e del mondo d’oggi più insicuri e diffidenti.

Autore

  • Michele BLANCO. Dottore di ricerca in “Diritti dell’uomo e Diritti fondamentali. Teorie, etiche e simboliche della cittadinanza” presso la facoltà di Giurisprudenza della Seconda Università di Napoli. Tra i suoi saggi più rilevanti si ricordano: “La vera ragione dei diritti umani e la democrazia partecipativa come premessa al reciproco riconoscimento tra i popoli” (2006), “Democrazia deliberativa ed opinione pubblica emancipata” (2008), “Cosmopolitismo e diritti fondamentali” (2008), “Diritti e diseguaglianze. La crisi dello stato nazionale e al contempo dello stato sociale” (2017), “Nota critica a Thomas Piketty, Capitale e ideologia” (2021) “Nota critica a Katharina Pistor , Il codice del capitale. Come il diritto crea ricchezza e disuguaglianza”, 2021. “Recensione critica a Thomas Piketty, Una breve storia dell’uguaglianza”  2021.

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