Il voto europeo del prossimo giugno avviene in un momento di profonda crisi dell’Unione, di cui non si intravede alcuna via di uscita.
Agli elettori si chiede, da parte di tutti i principali esponenti politici e dei media, di scegliere tra soltanto due possibili maggioranze: quella attuale o una spostata verso destra con l’inclusione dei conservatori e l’esclusione dei socialisti|democratici. Cioè, la scelta tra confermare l’assetto politico che ha portato alla crisi attuale o ripiegare su un arroccamento disperato, nell’illusione di potersi rinchiudere in un bastione lasciando il resto del mondo al suo destino. Come se l’Europa di oggi potesse esistere senza il resto del mondo e come se il cuore della crisi a cui vorrebbe sottrarsi, tra la sponda sud del Mar Nero e la sponda Est del Mediterraneo, non la toccasse.
Gli elettori che non se la bevono si stanno orientando a prendere “la via dell’exit” verso l’astensione, salvo quella parte, purtroppo una minoranza, che non rinuncerà a far sentire la sua “voice” di protesta. Ma, con poca chiarezza sull’alternativa, quella vera, che si dovrebbe costruire.
Non c’è molto da recriminare sulla scarsa chiarezza. È un lavoro in corso, c’è una cultura da ricostruire prima ancora di progettare un futuro. E c’è da sgomberare il terreno dal cumulo di macerie che si è prodotto, dopo che qualche araldo cantastorie è venuto ad annunciare la fine della storia e il trionfo dell’Occidente grazie al solo fatto che il primo esperimento di una nuova storia era collassato su sé stesso dopo aver tenuto il resto del mondo con il fiato sospeso per settanta e più anni.
Il tempo stringe, gli eventi catastrofici si susseguono pericolosamente, ma non si fa in un attimo una nuova cultura. E gli anziani del villaggio, che dovrebbero alimentare cultura e infondere saggezza, scarseggiano. Siamo nelle mani di timonieri che si preoccupano di affrontare al meglio le onde più minacciose nella “gran tempesta” ma non si chiedono quale sia la rotta da seguire e non hanno accanto nessun “nocchiere” che sappia indicarla.
Evocando Dante Alighieri arriviamo dunque all’Italia, “serva” e “di dolore ostello”. Quale sorprendente attualità hanno quei versi! Quanto alla servitù, si inchina alla Casa Bianca, dove dominano suprematisti e militaristi, e anche agli altri due soci fondatori dell’Unione, che decidono senza ascoltare il parere di un’Italia che parere non ha. E, quanto al dolore, gli elettori (in realtà, il 20% degli aventi diritto) hanno scelto di farsi guidare da un governo a cui il dolore è indifferente. Peggio, è di disturbo, va punito, esacerbandolo e emarginandolo: arrabbiatevi pure, vi allontaniamo dai nostri occhi.
Siamo in fondo a ogni genere di classifiche, e se una commissione di esperti ci esorta a cercare di migliorare qualche nostra prestazione, rispondiamo picche, quasi si trattasse di offese. L’elenco dei nostri fallimenti sta diventando impossibile da ricostruire per quanto è vasto, innumerevole. I giovani fuggono, gli anziani si deprimono, gli uomini si incattiviscono e le donne cercano di difendersi e di resistere ma sono allo stremo delle forze.
Se non bastasse, la parte che nel resto d’Europa lavora a una nuova cultura e a un futuro alternativo, in Italia è in pessime acque, oltre che in minoranza. Una moltitudine di solisti che non riescono a fare un’orchestra mentre i più giovani, privi di guida, devono scavare a mani nude una breccia nel muro che li confina fuori del recinto dove si gioca la partita che decide del loro futuro.
Non ci sarà un rappresentante italiano di questo mondo politico al Parlamento europeo, a meno che non accada qualche evento clamoroso che trasformi la moltitudine in comunità. Altrimenti, tre o quattro liste faranno a gara per contarsi a vicenda, senza riguardo per la posta in gioco. Gli appelli che si susseguono da parte di tante persone di buona volontà per evitare questo esito cadono nell’indifferenza o suscitano fastidio.
L’Europa tracolla: se finirà male, ai piani bassi, abitati dall’Italia, sotto le macerie non ci sarà scampo.